Le Forze Armate e i tanti suoi giovani che si sono immolati per difendere democrazia e libertà meritano di essere ricordati. Servire in armi gli obiettivi e gli ideali della Patria purtroppo porta anche alla morte, e ciò è motivo di dolore ma anche di perenne, doveroso e grato ricordo di chi, con il massimo sacrificio, difende, testimonia e mantiene vivi i valori che presidiano la virtuosa vitalità di un popolo. L’intervento di Giorgio Girelli, coordinatore Centro Studi Sociali “A. De Gasperi”
Il 28° RGT “Pavia” (Pesaro) ha promosso per il 2 novembre, come altri Comandi e Unità militari in Italia, la celebrazione di una Messa commemorativa in suffragio dei caduti per la Patria. Queste iniziative si connotano quali eventi altamente apprezzabili perché volti a ricordare doverosamente chi ha perduto la vita e ad essi rendere onore. Ma anche perché inducono a qualche altra riflessione:”Dulce et decorum est pro patria mori”, recita il poeta latino Orazio (Odi, libro terzo) riflettendo quella mentalità spartana o romana, per cui fare la guerra è un diritto che spetta solo a chi è cittadino a pieno titolo, per cui il coraggio è uno status, la più importante delle virtù.
E chi si “smarca” per viltà, sempre secondo Orazio, “raro antecedentem scelestum deseruit pede Poena claudo” (raramente la Pena, seppur zoppa, lascia scappare lo scellerato che fugge).
Oggi le sensibilità sono diverse e non si ritiene più che morire, anche per una causa giusta, sia “dolce”. Ma “decorum”, che il “Calonghi” traduce come “ciò che è ben fatto”, mantiene la sua valenza perché di fronte ad esigenze estreme della Patria può essere necessario mettere in gioco anche la vita.
E ciò le Forze Armate lo sanno bene perché lo hanno sperimentato sulla loro pelle meritando pertanto la riconoscenza e l’apprezzamento della comunità. Come lo meritano quei tanti giovani che si sono immolati per difendere democrazia e libertà. Se dunque, purtroppo, servire in armi gli obiettivi e gli ideali della Patria porta anche alla morte, ciò è motivo di dolore ma anche di perenne, doveroso e grato ricordo di chi, con il massimo sacrificio, difende, testimonia e mantiene vivi i valori che presidiano la virtuosa vitalità di un popolo. Non a caso quel verso di Orazio, nonostante l’indubbia retorica, è riprodotto in molte sedi e monumenti del mondo: Australia, con la “Placca al Graceville War Memorial, nel Queensland, ma anche in Canada, Cuba, Repubblica Dominicana, India, Nepal, Nuova Zelanda, Pakistan, Spagna, Svezia, Regno Unito, Stati Uniti. In Italia il verso è inciso anche in ogni medaglione al centro delle croci del Cimitero degli Eroi di Aquileia dedicato ad ogni soldato morto durante la Prima guerra mondiale. È pure il motto della 505ª Squadriglia del 71º Gruppo di Volo dell’Aeronautica Militare.
Per completezza va aggiunto che il motto ricorre, seppure con significato opposto, nella poesia scritta nel 1917 dall’inglese Wilfred Owen, ufficiale che prese parte al primo conflitto mondiale e rimasto ucciso nel 1918. Aveva visto le orribili immagini degli scontri e dell’uso dei gas che lo indussero a condannare tutti coloro che in patria incitavano i giovani al combattimento bollando il verso di Ovidio come “antica bugia”.
Nessuna persona di buon senso, a cominciare dai militari che ne conoscono bene le caratteristiche, vede con favore la guerra. Ma una cosa è la terribile vicenda del conflitto armato, mai sufficientemente condannato, altra è il singolo che ci va di mezzo ed il cui sacrificio va onorato.