Skip to main content

Francia e Quirinale, la lezione di Andreotti. Parla Mannino

L’ex ministro Dc: il Trattato del Quirinale va nella giusta direzione, un errore non sottoporlo prima al Parlamento. La realpolitilk europea di Draghi ricorda l’approccio di Andreotti alla politica estera. Perfino i missili di Gheddafi, per lui, erano “bombette”. Quirinale? Ci risentiamo a Natale…

Un paradosso all’italiana. Nel palazzo che più di tutti oggi si affaccia sull’ignoto, due Paesi fondatori dell’Unione europea, Italia e Francia, firmano una nuova, duratura alleanza.

Per chi ha vissuto da protagonista un pezzo della storia repubblicana, il Trattato del Quirinale siglato venerdì da Emmanuel Macron, Sergio Mattarella e Mario Draghi non è una sorpresa. A questa schiera appartiene Calogero Mannino, Dc della prima ora, più volte ministro, che a Formiche.net sussurra dubbi e speranze sulla nuova pagina di storia europea scritta a Roma, sul colle più alto.

“Sulle ragioni del trattato nessun dubbio: sono solide. I francesi nutrono un sincero sentimento verso gli italiani, sublimato nell’opera di Stendhal, nel suo Fabrizio del Dongo, l’eroe romantico della Certosa di Parma. Altro canto è capire come si svolgerà, in concreto, l’iniziativa politica. Da parte francese sarà un’iniziativa forte. E qui sorge il primo dubbio: l’Italia farà altrettanto?”.

Il cruccio non è campato per aria. Il Trattato non è infatti una semplice entente cordiale, tocca grandi e importanti settori strategici, Difesa, sicurezza, commercio, ricerca. “L’esperienza recente dei rapporti italo-francesi è assai poco confortante”, dice Mannino, “l’Italia dovrà cercare di non farsi sovrastare dalle ombre del passato”.

Prima di addentrarsi nei meandri del negoziato, il Dc siciliano ci tiene a fare una seconda premessa: può un così rilevante impegno nei confronti di un altro Stato essere preso senza prima consultare il Parlamento? L’articolo 80 della Costituzione, in verità, prevede solo un passaggio obbligatorio, ma a posteriori: la ratifica. Dunque, semmai, il problema è di opportunità politica. “È l’unica questione di legittimità che mi sento di sollevare, per un trattato che, nella sostanza, non ha arditezze o tratti programmatici sconvolgenti. Sarebbe stato bene presentarlo prima al Parlamento, ricevere un via libera politico all’accordo”.

Di qui il bicchiere mezzo pieno. Mannino è convinto che il trattato italo-francese sia il prodotto di una realpolitik europea di Mario Draghi che trova un solo, autorevole predecessore, anzi due. “Prima di Draghi bisogna risalire a Giulio Andreotti, che a sua volta, almeno in politica estera, si ispirava al suo maestro Alcide De Gasperi. Tutti e tre convinti, giustamente, che l’intesa tra Francia e Italia da sola non basti. Serve aggiungere il terzo tassello, la Germania. Ne era sicuro anche Roosevelt, pensava che l’Italia servisse a tenere insieme francesi e tedeschi nel dopoguerra”.

Realpolitik significa, soprattutto, saper gestire le crisi a sangue freddo. “Andreotti era bravissimo. Ricordo quando Gheddafi sparò un missile contro Lampedusa. Corsi da lui a chiedere indicazioni, mi disse con calma serafica: “Mannino, è una bombetta”.

Il test più difficile per il nuovo Trattato, ne è certo Mannino, si chiama Libia. “Inutile girarci intorno: i francesi hanno tentato in tutti i modi di mettere alla porta l’Italia. Il risultato è che oggi, in Libia, comandano solo Putin ed Erdogan. Ma con la Francia bisogna parlarci, piaccia o meno. Nel Mediterraneo, specie nella parte orientale, hanno una presenza militare e strategica più robusta della nostra, l’intesa può aiutare a ribilanciare”.

Dai francesi, insomma, c’è anche da imparare. “Prendiamo l’epopea dell’energia atomica. Abbiamo votato no al referendum, e ora ci sono quattro centrali atomiche francesi che lavorano per l’Italia”. Lo stesso vale per settori erroneamente ritenuti “tecnici”, che invece la pandemia ha rivelato essere strategici, come l’agroalimentare, tante volte campo di battaglia tra cugini d’Oltralpe. Sospira Mannino: “Raul Gardini fu tra i primi a capirlo, quando comprò la Beghin Say, poi tornata in mani francesi. Sarebbe stata preziosa per i semioleosi, la soia, l’agricoltura italiana nel complesso. Aveva centri di ricerca in tutta Europa, uno a Bruxelles”.

La parola d’ordine, in definitiva, è parità: su questi presupposti, spiega l’ex ministro, deve instaurarsi il nuovo rapporto tra Roma e Parigi. “Questo trattato ha le sue radici nel governo Gentiloni. Un cognome che richiama il compromesso che portò i voti dei cattolici ai massoni. Speriamo questo accordo non porti gli italiani solo fra le braccia dei francesi”.

Domandiamo a Mannino se il tempismo, con le elezioni del Quirinale in vista, potesse essere scelto con più giudizio. Non si sbilancia: “Il presidente della Repubblica si è preoccupato di portare a compimento alcune questioni aperte a fine mandato, avrà deciso che questa era tra le più importanti”. Figurarsi quando chiediamo un pronostico sul prossimo inquilino del Colle. “Caro Bechis, sono tutti camerieri. Invochiamo lo Spirito santo e ci risentiamo per Natale, non prima”.

×

Iscriviti alla newsletter