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Green pass permanente anche in un mondo Covid-free? L’opinione di Curini

Il profilo dei cinesi che approvano il Social Credit System corrisponde all’italiano che apprezza protezione e restrizioni (anche in un mondo Covid-free). L’opinione di Luigi Curini, docente di Scienza Politica all’Università degli Studi di Milano

In questi mesi da più parti si è discusso della possibile relazione tra, da un lato, il green pass (specie nella sua versione ultra-rigida come è quella attualmente in vigore in Italia), e, dall’altro, il Social credit system (SCS) cinese. La similitudine, inutile nascondersi, di fondo c’è, essendo entrambi un sistema di premi e di punizioni implementato dallo Stato in base alla conformità del comportamento dei suoi cittadini (proprio o meno).

Insomma, qualche cosa assai lontano da un sistema di nudge come qualcuno, grossolanamente, aveva provato a far passare il green pass all’italiana, dato che il nudging lavora sul contesto informativo per influenzare i comportamenti, non limitando al contrario le scelte individuali. Detto questo è ovvio che ci sia una differenza fondamentale tra i due sistemi: in Cina il Scs fa oramai parte della routine della vita di un tipico cittadino cinese; nel nostro caso, almeno questa è la speranza, si tratta di una misura temporanea nata di fronte ad una emergenza pandemica. C’è però una seconda e forse più interessante similitudine tra green pass e Scs che merita di essere sottolineata, e che è sfuggita ai più.

Come è oramai ben noto in Cina, sulla base del Scs, gli individui, ma anche le imprese, le associazioni e financo le agenzie pubbliche, sono valutate sulla base della loro “affidabilità”. Il Scs non è (ancora…) un singolo sistema unificato, dato che include diverse e spesso frammentate iniziative avviate da governi locali, così come da parte di iniziative private. Quello che hanno in comune queste diverse attività riconducibili al cappello del SCS è che integrano sempre una varietà di fonti dati (a partire, ma non solo, da quelle legate al mondo dei Big Data – come ad esempio ciò che si scrive sui social media), ed attraverso questo mettono in piedi un sistema di punteggi per ciascun individuo con connesso apparato di incentivi (come una riduzione delle imposte o un più facile accesso ai servizi della pubblica amministrazione) e di penalità (impossibilità di viaggiare ad esempio in aereo o su treni ad alta velocità, limitato accesso a servizi finanziari, e così via). L’obbiettivo di tutto questo è quello di “guidare” il comportamento dei cittadini e delle organizzazioni. E i cinesi appaiono apprezzare particolarmente la cosa.

Secondo uno degli studi più accurati e aggiornati a riguardo, circa la metà dei cittadini cinesi (il 49%) mostra un forte appoggio al Scs. E la ragione più ricorrente che spiega tale atteggiamento è che il SCS non viene affatto considerato come uno strumento di sorveglianza statale, quanto un mezzo per migliorare la qualità della vita, in quanto capace di condurre a comportamenti più onesti e rispettosi della legge nella società. Con la conseguenza di aumentare la fiducia verso gli altri. E difatti l’unica ragione importante che appare erodere in qualche modo il sostegno pubblico nei confronti del Scs, sempre secondo questa ricerca, è la sua mancanza di trasparenza. In altre parole, i cittadini cinesi non appaiono affatto preoccupati di ricevere un punteggio ufficiale da parte del governo. Sono al contrario infastiditi se questo punteggio è percepito essere calcolato in modo poco imparziale.

E in tutto questo, quale è il profilo tipico del cittadino cinese che approva più di altri il Scs? Qua scattano le sorprese. Perché il cinese più pro-Scs di tutti non è un outsider, ma un vero insider della società cinese. Vive in città, ha un buon livello di istruzione, reddito superiore alla media, di solito uomo, tra i 51 e i 65 anni. E le sorprese raddoppiano se torniamo al caso italiano e analizziamo alcuni dati relativi a chi sarebbero quei concittadini pronti a mantenere le limitazioni introdotte in questi quasi due anni di pandemia anche nel futuro, indipendentemente – si noti – da ogni rischio di Covid.

Sulla base di un recente sondaggio (per un approfondimento a questo riguardo si veda l’articolo apparso recentemente su Iref), non solo il sostegno verso il green pass è particolarmente alto in Italia (questo lo si sapeva già), ma anche la percentuale di italiani a sostegno di misure ristrettive in un mondo Covid-free (a partire dal green pass per viaggiare e per andare al ristorante, per finire alla quarantena per chi prende un aereo da fuori Europa) non è banale: circa 1 italiano su 5. Una percentuale che ben difficilmente può essere ricondotta solo ad ipocondriaci vari ed eventuali… Chiaramente la pandemia ha toccato nel profondo le sensibilità di una fetta non trascurabile di italiani.

Ma chi sono soprattutto questi italiani che vedono di buon occhio il rendere permanenti le misure restrittive adottate in questi lunghi mesi di allarme Covid? Grosso modo esattamente gli stessi che in Cina sostengono più di altri il Scs: ovvero italiani con una elevata istruzione, che vivono nelle grandi città, maschi e con una età tra i 45 e i 54 anni. Una immagine di italiano che ben difficilmente combacia con la narrazione quotidiana del caratteristico elettore “populista”, ovvero il capro espiatorio, per molti, della gran parte dei problemi attuali delle democrazie liberali. Al contrario, questo profilo è quello storicamente associato nelle società occidentali alla libertà e alla sua estensione (e strenua difesa). Da qua il paradosso. Una immagine che è forse oramai diventata obsoleta? Non ci resta che aspettare. Incrociando, anche in questo caso, le dita. E puntando tutto, se le cose mettono al peggio, sulla famosa casalinga di Voghera.



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