Dopo l’inserimento da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di tre loro esponenti nella lista dei terroristi, i miliziani filo iraniani hanno devastato il compound che ospita la sede diplomatica, dopo aver sequestrato 25 addetti locali amministrativi e della sicurezza
I ribelli Houthi dello Yemen, che da febbraio sono fermi con le loro milizie sul fronte a sud di Marib e che rifiutano al contempo qualsiasi proposta di pace, hanno compiuto una nuova prova di forza figlia più della disperazione che di un piano politico.
Il 10 novembre la sede dell’ambasciata degli Stati Uniti a Sana’a, un grande compound che si trova lungo la via Sheraton, così chiamata perché portava a quello che è stato a lungo il più importante hotel della capitale yemenita, è stata presa d’assalto dai miliziani filo iraniani che ne hanno saccheggiato gli uffici, rubando tutte le attrezzature presenti ancora utilizzabili.
Questo blitz è stato possibile grazie al fatto che nei giorni e nelle settimane precedenti hanno provveduto a sequestrare dalle loro case 25 membri del personale, per lo più guardie e dipendenti locali dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale. Pochi giorni prima dell’assalto la milizia aveva rapito 3 dipendenti dell’ambasciata statunitense a Sana’a, mentre circa tre settimane prima ne aveva rapiti altri 22.
L’11 novembre gli Stati Uniti hanno chiesto ufficialmente alla milizia Houthi di rilasciare immediatamente il personale sequestrato a Sana’a. L’ambasciata era stata chiusa nel 2015 poco dopo che gli Houthi avevano assunto il controllo della capitale e gran parte dello Yemen settentrionale, scatenando il conflitto ancora in corso nel Paese.
Un portavoce del Dipartimento di Stato ha affermato che la maggior parte del personale è stato rilasciato nelle ultime ore, ma alcuni sono ancora detenuti.
“Siamo preoccupati che il personale yemenita dell’ambasciata degli Stati Uniti a Sana’a continui a essere detenuto senza spiegazioni e chiediamo il loro rilascio immediato”, ha detto il portavoce.
Gli Houthi devono “liberare immediatamente” l’ambasciata e “restituire tutti i beni sequestrati”, hanno aggiunto. “Il governo degli Stati Uniti continuerà i suoi sforzi diplomatici per garantire il rilascio del nostro personale e lo sgombero del nostro complesso, anche attraverso i nostri partner internazionali”.
Il 9 novembre il portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Price, ha dichiarato di non avere dettagli sul motivo per cui il personale era stato arrestato in quel momento. “Siamo estremamente preoccupati per le notizie sulla detenzione di alcuni dei nostri dipendenti yemeniti locali a Sana’a e chiediamo il loro rilascio immediato”, ha detto durante una conferenza stampa.
La notizia di questi rapimenti è iniziata a circolare il giorno prima, 8 novembre, quando Cathy Westley, il massimo diplomatico statunitense presso l’ambasciata dello Yemen, che ora ha sede in Arabia Saudita, ha visitato il governo legittimo yemenita che si trova nella capitale temporanea ad Aden, insieme all’inviato speciale degli Stati Uniti in Yemen, Tim Lenderking, che era al suo primo viaggio nel Paese, per incontrare il primo ministro Maeen Abdulmalek Saeed e diversi altri funzionari.
Lenderking è stato incaricato di trovare una soluzione alla guerra tra gli Houthi sostenuti dall’Iran e le truppe governative sostenute da una Coalizione araba a guida saudita. Lavoro non facile considerato che gli Houthi hanno più volte respinto sia la proposta di pace saudita che quella del suo predecessore durante delle trattative che si sono svolte in Oman.
Una fonte vicina alle famiglie degli addetti locali dell’ambasciata Usa ancora in mano ai ribelli ha riferito che i miliziani hanno fatto irruzione venerdì scorso nella casa di Abdel Moeen Azzan (ex dipendente dell’ambasciata e coordinatore MBI a Sana’a) mentre era in riunione con i suoi amici e lo ha rapito insieme ai suoi due colleghi Jamil Ismail, l’ufficiale economico dell’ambasciata, e Hisham al Wazir, un impiegato dell’Agenzia per lo sviluppo degli Stati Uniti, che fa capo al Dipartimento di Stato.
L’assalto all’ambasciata è avvenuto a pochi giorni di distanza dell’inclusione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di 3 Houthi nella lista dei terroristi. Il Comitato per le sanzioni ha approvato l’inclusione di Muhammad Abdul-Karim Al-Ghamari, Salih Misfir Al-Sha’er e Yusuf Al-Madani nell’elenco delle sanzioni internazionali per le loro azioni contro la sicurezza e la stabilità dello Yemen e in violazione del Risoluzioni Onu relative alla situazione nel Paese. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti aveva già incluso sia Al-Madani che Al-Ghomari nella lista delle sanzioni lo scorso maggio.
La presenza di ostaggi del personale statunitense, seppur cittadini yemeniti, tra le mani della formazione filo iraniana rischia di infiammare ulteriormente le tensioni tra gli Stati Uniti e l’Iran, che arma e finanzia i ribelli Houthi nello Yemen. L’amministrazione USA precedente di Donald Trump aveva inserito gli Houthi tra le organizzazioni terroristiche. Secondo gli analisti locali la scelta compiuta dall’attuale amministrazione, di Joe Biden, di rimuovere gli Houthi da quella lista ha incoraggiato i ribelli a compiere azioni sempre più efferate nei territori che controllano e a lanciare l’offensiva su Marib, ricca zona petrolifera, senza la quale non possono riprendere le trattative col governo legittimo da una posizione di forza.
La mossa di Biden, di rimuovere gli Houthi dalla lista dei terroristi, è stata vista come un gesto di buona volontà per convincere l’Iran ad accettare i negoziati diplomatici volti a garantire una versione rinnovata dell’accordo nucleare del 2015. Ora l’assalto dell’ambasciata statunitense a Sana’a e il fermo dei suoi addetti locali potrebbe convincere anche l’amministrazione attuale a rivedere questa decisione.