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Iran, accordo parziale sul Jcpoa? Le variabili in campo

Gli Usa vogliono trovare una soluzione con il Jcpoa, ma senza cedere troppo. A Teheran pensano di essere in vantaggio negoziale e provano a sfruttare la situazione

L’inviato speciale statunitense per il dossier Iran, Robert Malley, è in viaggio in Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Un altro contatto diretto con le controparti della regione per parlare delle questioni che ruotano attorno a Teheran anche attraverso la costruzione di un “working group” a Riad. Tra i temi ovviamente in testa c’è la ricomposizione del Jcpoa, l’accordo per il congelamento del programma nucleare della Repubblica islamica che Malley sta trattando per conto dell’amministrazione Biden.

A che punto siano queste trattative è oggettivamente complicato dirlo. Più volte si è parlato di buoni propositi e buoni punti di contatto, ma di risultati concreti finora non se ne sono visti. Sebbene fosse considerata alla vigilia delle elezioni una delle priorità in politica estera di Joe Biden, alla fine si è rivelata concreta la linea tenuta da quegli analisti che reputavano il democratico interessato sì a un ritorno al tavolo (e di farlo con la buona volontà di andare avanti), ma senza fretta e sbilanciamenti.

Le variabili che controllano le dinamiche di questo processo di ricomposizione sono varie, e peseranno sui nuovi negoziati — che riprenderanno nelle prossime settimane — così come hanno pesato finora. Se, per esempio, gli alleati europei degli Stati Uniti sono maggiormente propensi alla ricostruzione del Jcpoa così com’era prima della decisione dell’amministrazione Trump di uscirne unilateralmente (e dunque metterlo in profonda crisi strutturale), dal Medio Oriente le posizioni sono diverse.

Malley in questi giorni si troverà davanti a richieste che già conosce: non puntare a una condizione stretta, ma usare l’occasione dei nuovi negoziati per ampliare la base delle condizioni che la Repubblica islamica dovrà accettare per vedersi recuperata una sostanziale potabilità internazionale. Ossia, non solo ciò che riguarda il programma nucleare (su cui in questi giorni escono nuove indiscrezioni a orologeria come sempre in queste occasioni), ma anche quello sui missili balistici (collegato al nucleare) e soprattutto i comportamenti nella regione (in cui i Pasdaran hanno diffuso un seme velenoso alimentando milizie sciite che cercano con ogni mezzo, anche per procura iraniana, di accrescere la propria influenza in paesi come il Libano, l’Iraq, la Siria o lo Yemen).

Sotto questo punto di vista, la visita di Malley si porta dietro un quadro ben più ampio. L’inviato speciale non sarà il solo alto funzionario dell’amministrazione Biden a essere presente in Medio Oriente nei prossimi giorni. Con lui, il segretario alla Difesa, Lloyd Austin, che visiterà Bahrein ed Emirati; l’inviato per la crisi in Yemen, Tim Lenderking, sarà a Riad e alla corte bahrenita; la vicesegretaria di Stato, Mira Resnick, sarà ad Abu Dhabi. Il senso di questa presenza composita ruota in parte attorno all’Iran, protagonista della guerra civile in Yemen perché assiste militarmente gli Houthi contro la coalizione a guida saudita, ma anche attore attorno a cui costruire deterrenza militare rafforzando i partner locali. Come ha detto Resnick anticipando la sua visita ai giornalisti, gli Usa sono “fermamente convinti” sul vendere gli F-35 agli emiratini.

L’aggiunta di Abu Dhabi alla catena di alleanze d’élite che possiedono la migliore tecnologia militare statunitense non piace troppo a Israele, ma è la conseguenza — per Gerusalemme accettabile — degli Accordi di Abramo, che celebrano il consolidamento dell’asse sunnita con lo stato ebraico e gli americani. Un asse in netta contrapposizione all’internazionale sciita pensata da Teheran (e mai raggiunta per incapacità strumentale). Inoltre, con le dovute garanzie fornite a Israele sull’essere primus inter pares, quell’asse rafforza la capacità strategica americana davanti all’allineamento tra Russia, Cina e Iran, sempre più spinto — sopratutto nella narrazione dello scontro tra modelli di visione del mondo.

Sotto queste dinamiche il Jcpoa stesso, ossia la sua ricomposizione al momento, assume una veste differente. Mosca e Pechino sono parti dell’accordo, negoziato da un sistema composto dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dall’Europa. Tant’è che Biden ne ha parlato con il segretario del Partito Comunista cinese, il capo dello Stato Xi Jinping, durante la recente videoconferenza bilaterale: se l’Iran può essere un punto di contatto tra due potenzi distanti, il rischio è che possa essere uno dei terreni che la Cina sfrutta con l’obiettivo di complicare la strada alla narrazione americana (quella secondo cui le Democrazie vincono e convinco sempre e per questo con il modello che rappresentano sono in grado di risolvere ogni genere di situazione critica).

Un’ulteriore variabile riguarda proprio l’Iran. Come spesso accade su alcuni dossier specifici, le necessità e gli interessi dei protagonisti diretti rischiano di essere trascurati dalle attenzioni di chi analizza la big picture. A Teheran si è insediata una presidenza conservatrice, che ha in parte visioni pragmatiche, ma che d’altra parte deve mantenere contatto con la propria costituency anche davanti alle proteste di chi vorrebbe rivoluzionato tutto il sistema che ruota attorno alla conservazione del potere teocratico.

Da qualche giorno circolano informazioni a proposito di un potenziale accordo “parziale” tra gli Stati Uniti e l’Iran con il quale Teheran bloccherebbe i risultati raggiunti nelle capacità di arricchimento rientrando nelle compliance del Jcpoa, e Washington toglierebbe alcune delle sanzioni. Il sito Axios che ha rivelato la notizia parla della riluttanza israeliana come principale limitazione a questo scenario, tuttavia — fermo restando che non è chiaro quanto gli Stati Uniti possano accettare questo genere di soluzione — l’ostacolo maggiore viene da Teheran. Infatti, se com’è possibile l’Iran crede di essere in posizione dominante in questo momento, allora preferirà probabilmente continuare a pressare la situazione cercando di portarla al massimo a proprio vantaggio, piuttosto che accontentarsi di un alleggerimento solo parziale delle sanzioni. Per altro in cambio della sua più importante leva: un’escalation sul programma nucleare.

Nei fatti, quello che esce dagli statement congiunti tra Stati Uniti e Consiglio della Cooperazione del Golfo, così come da quello relativo all’incontro tra europei e americani con i Paesi del Consiglio più Egitto e Giordania è una maggiore disponibilità al disinnescare tensioni anche attraverso la ricomposizione del Jcpoa — inteso sia per il valore tecnico, sia per quel che riguarda il suo peso nel dialogo regionale. Sempre a patto che l’Iran accetti di retrocedere da quella percezione di forza.


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