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Joe Biden, un anno dopo. Le pagelle di Castellaneta

Un pragmatico alla Casa Bianca. A un anno dall’elezione, la presidenza di Joe Biden vive un momento di stallo. Giovanni Castellaneta, già ambasciatore dell’Italia a Washington, traccia un bilancio di luci e ombre, dalla pandemia al clima fino alla ripartenza economica

Ad un anno dalla sua elezione alla Casa Bianca, è già possibile trarre un bilancio della Presidenza Biden? Certamente sì: il 2021 è stato carico di eventi, sfide e cambiamenti epocali, tanto che “Sleepy Joe” non ha avuto modo di annoiarsi o rilassarsi sugli “allori” di una situazione che non c’è definitivamente più: quella degli Stati Uniti leader incontrastati del pianeta.

La pandemia, del resto, ha contribuito ad accelerare fenomeni che erano già in corso da tempo, come quello di una diversa distribuzione del potere internazionale che vede soprattutto la Cina nella posizione di potersi confrontare con gli Usa. Ma, al di là dell’emergenza sanitaria che ha messo in ginocchio tutto il pianeta, come si è comportato Biden dinanzi alle altre numerose sfide, dall’economia alla politica estera, passando per la lotta al cambiamento climatico?

Per analizzare il primo anno di Presidenza Biden, non possiamo certo non considerare la “zavorra” lasciata dai quattro anni di Trump: un governo – quello di “The Donald” – decisamente fuori dagli schemi, anche quelli dei repubblicani “tradizionali”, che con il suo approccio unilaterale nell’affrontare le grandi questioni globali ha contribuito ad aggravare, anziché ammorbidire, le tensioni internazionali.

Biden ha dovuto dunque anzitutto misurarsi con l’eredità lasciatagli in dote (anche se controvoglia, se ripensiamo alle immagini ancora oggi incredibili dell’assalto a Capitol Hill) dal suo predecessore, e decidere fino a che punto se ne volesse distanziare, non solo nella sostanza ma soprattutto nelle forme. In secondo luogo, può essere utile analizzare le grandi scelte compiute dal Presidente democratico secondo una prospettiva di “costi” e di “benefici”.

Cominciamo, ad esempio, dalla lotta alla pandemia. Gli Stati Uniti sono stati in pole position nella campagna vaccinale, raggiungendo in pochi mesi il 40% della popolazione con due dosi. In maniera comprensibile e giustificabile, Biden ha preferito destinare le (allora poche) dosi disponibili alla propria popolazione, anche se questo ha ritardato l’avvio della campagna in altri Paesi.

In un secondo momento, il Governo federale non è però riuscito a raggiungere una copertura ampia della popolazione vaccinata come è avvenuto in Unione Europea e Gran Bretagna: ad oggi, solamente il 60% degli statunitensi hanno ricevuto due dosi. In pratica, Biden si è dovuto scontrare con il muro di alcuni governatori “no-vax” (come quello del Texas) che, con la complicità di un sistema politico decentrato e frammentato, hanno rallentato la somministrazione dei vaccini.

Oggi gli Usa si ritrovano con decine di migliaia di contagi e circa mille morti al giorno. Ma Biden, di fronte a questi numeri, ha dovuto fare una scelta: privilegiare e confermare le riaperture per non sacrificare l’economia. I numeri gli hanno dato ragione, con il Pil che è stato protagonista di un grande rimbalzo verso l’alto e la disoccupazione rientrata a livelli molto bassi.

Il presidente ha puntato tutto sulla crescita, lanciando un ambizioso piano di investimenti infrastrutturali che – sebbene sia stato dimezzato in seguito all’ostruzionismo del Congresso e del Senato (anche di alcuni franchi tiratori) – mira a rafforzare il potenziale di crescita di lungo periodo degli Usa e a modernizzare finalmente le obsolete infrastrutture. Una necessità non più rimandabile, in un momento in cui la Cina – ma anche l’Europa – stanno puntando fortemente su trasporti e connettività per accrescere la competitività ed aumentare la propria proiezione geopolitica.

Anche sul clima l’amministrazione Biden ha deciso di puntare forte, in questo caso in netta contrapposizione con quanto aveva fatto Trump. L’ex vice di Obama ha riportato gli Usa immediatamente all’interno dell’accordo di Parigi e ha assunto impegni finalmente chiari e ambiziosi in vista della decarbonizzazione e per accelerare la transizione energetica.

È stato anche grazie agli Usa se il G20 di Roma non è stato un fiasco dal punto di vista delle questioni ambientali, e se Cop26 potrebbe essere un punto di svolta importante per la lotta al cambiamento climatico. Sicuramente si sarebbe potuto fare di più, ma guardando indietro a come erano andati i quattro anni precedenti si può essere sollevati dal fatto che Washington sia di nuovo della partita.

E infine, la politica estera: c’è chi ha definito il ritiro dall’Afghanistan il più grande fallimento della Presidenza Biden fino ad ora. Siamo proprio sicuri che sia la chiave di lettura corretta? A ben vedere, l’obiettivo della Casa Bianca era quello di riuscire a porre fine alla guerra più lunga della storia degli Stati Uniti, una guerra che aveva prodotto pochissimi vantaggi dal punto di vista strategico e che era invece costata molto in termini umani ed economici. Si potrebbe dire che Biden ha ragionato in maniera forse un po’cinica, ma molto pratica: la priorità era lasciare Kabul ad ogni costo (ovviamente sopportabile). Purtroppo, l’Afghanistan non rientra nelle priorità americane.

Una Presidenza dunque pragmatica, probabilmente consapevole dei propri limiti determinati da questa fase particolare delle relazioni internazionali. Nei prossimi anni Biden convoglierà probabilmente la maggior parte delle energie a contrastare la Cina, in una rivalità che (speriamo) scaturisca solamente in una riedizione aggiornata della Guerra Fredda. Tra un anno, tuttavia, lo scoglio delle elezioni di mid-term si preannuncia già arduo da superare, e il rischio che Biden si trasformi presto in una “anatra zoppa” non va sottovalutato.


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