Gli Stati Uniti stanno cambiando le loro priorità in Medio Oriente. Il punto non è tanto il disimpegno, ma comprendere come la regione possa agganciarsi alla competizione strategica tra potenze
Gli Stati Uniti stanno alleggerendo da tempo il loro impegno nell’area Mena (Medio Oriente e Nord Africa), ma tengono comunque attiva – se non attivissima – la capacità di incidere e influenzare i processi in corso attraverso un controllo da remoto e la capacità di risposta rapida. A questo va aggiunto un sostanziale rinnovato interesse al mantenimento degli equilibri in Africa, dove le tensioni e le instabilità interne stanno esplodendo mentre attori rivali dell’America – Cina e Russia, ma anche Turchia e Iran – cercano e trovano forme di penetrazione.
Un esempio è quanto accaduto in queste settimane con il Sudan. Il golpe che ha portato alla destituzione del primo ministro – per mano dei militari con cui condivideva il governo di transizione post-Bashir – è stato affrontato con attenzione massima dagli Usa. L’attività di risposta rapida organizzata da Washington è stata paradigmatica: ai viaggi dell’inviato per il Corno d’Africa, Jeffrey Feltman, si sono sommate le pressioni politiche e diplomatiche sui partner più coinvolti; dagli Emirati Arabi alla Turchia. Risultato: evitando mosse scomposte e con azioni efficaci l’amministrazione Biden ha raggiunto l’obiettivo, far rientrare la crisi e riaprire la strada alla transizione democratica (di cui il Sudan era un modello in Africa) attraverso il dialogo, seppur delicato, tra governo e militari.
Il Pentagono chiama “dynamic force employment” i dispiegamenti rapidi nei vari teatri operativi di assetti strategici (anche bombardieri dalle potenzialità nucleari): buzzwords con cui la Difesa statunitense spiega concetti contenuti nel documento di National Defence Strategy (pubblicato nel 2018, dopo un decennio). Sembra quasi di aver assistito a qualcosa del genere, ma sul piano politico diplomatico, in questi giorni. Mentre Feltman si muoveva dentro e fuori Khartum, il segretario di Stato, Anthony Blinken, è andato in visita in tre Paesi africani – aree di interesse dei partner mediorientali, ma anche dei rivali strategici; punti di contatto per affrontare l’altra grande crisi del momento, la guerra nel Tigray. Nel frattempo, il segretario alla Difesa, Lloyd Austin, è andato in Bahrein ed Emirati; l’inviato per la crisi in Yemen, Tim Lenderking, a Riad e alla corte bahrenita; la vicesegretaria di Stato, Mira Resnick ad Abu Dhabi. E l’inviato per il Clima, John Kerry, presente alla firma del patto per l’acqua tra Israele, Giordania ed Emirati Arabi.
Washington ha spiegato a tutti di essere (ancora, o forse adesso più che mai) una potenza diplomatica e politica oltre che economica e militare, e di poter mobilitare negli stessi giorni figure di primo piano dell’amministrazione per cercare di rimettere ordine su situazioni complesse – situazioni in cui non solo i rivali, ma anche i partner, cercavano troppi spazi di speculazione. L’obiettivo del forcing è stato mandare un messaggio: per gli Usa è fondamentale che nella gigantesca e complicata regione di mondo che tiene insieme il Medio Oriente e l’Africa settentrionale e centrale (in Italia viene definita “Mediterraneo allargato”) calino le tensioni in favore del dialogo, cresca la prosperità e diminuisca l’instabilità.
Impossibile accettare disordini uno dietro l’altro, dal Sahel al Corno d’Africa, dallo Yemen all’Iraq all’EastMed – disordini che sono per buona parte alimentati dalle divisioni interne, ma non solo. Se per gli americani l’ordine e la stabilità sono fondamentali per concentrarsi altrove – per esempio sull’Indo Pacifico, centro d’avvio del contenimento cinese – per altri attori il caos è una forma per infastidire gli Usa, creare problemi e dunque attirare là concentrazioni e sforzi. Se per esempio l’Iran non avesse l’attività di disturbo legata alla guerra in Yemen, all’instabilità politico-sociale in Iraq, e in generale alle varie penetrazioni regionali dei Pasdaran, sarebbe un dossier molto meno complicato da affrontare per Washington.
Su Politico all’inizio dell’anno è stato pubblicato un articolo informato e approfondito che raccontava bene l’attuale posizione degli Stati Uniti sull’area Mena, la quale in estrema sintesi si può riassumere così: la regione non è una priorità al momento. C’era un passaggio molto esplicativo su questa non-grand-strategy: “Se hai intenzione di elencare le regioni che [il presidente Joe] Biden considera prioritarie, il Medio Oriente non è tra le prime tre”, diceva un ex alto funzionario della sicurezza nazionale e vicino consigliere di Biden alle giornaliste Natasha Bertrand e Lara Seligman che hanno curato l’approfondimento contando su varie fonti, rigorosamente anonime.
Ancora da quello stesso funzionario: “C’è l’Asia-Pacifico, poi l’Europa e poi l’emisfero occidentale. E questo riflette un consenso bipartisan sul fatto che le questioni che richiedono la nostra attenzione sono cambiate con la rinascita della competizione tra le grandi potenze [con Cina e Russia]”.
Gli Stati Uniti da tempo hanno iniziato a considerare il Medio Oriente un posto complicato da gestire, dove il rischio evidente sta nel rimanere impantanati nei dossier regionali senza ritorni per l’America. Queso pensiero è uscito abbastanza esplicitamente nell’èra Obama, quando iniziava a concretizzarsi l’indipendenza energetica (e dunque l’area non era più cruciale per quel settore strategico) e si è fatto completamente aperto con la presidenza Trump (che ha violato i protocolli diplomatici classici e trasformato certe orientazioni strategiche in terreno di snodo dell’America First predicato).
Sotto quest’ottica appaiono più leggibili diverse dinamiche, come per esempio l’apparente sforzo per sistemare il dossier nucleare con l’Iran. L’amministrazione Biden inserisce la questione nella propria catena di priorità, ma — pur consapevole che esiste una finestra temporale limitata — difficilmente accetterà eccessive esposizioni per arrivare a un accordo. Allo stesso tempo però la questione iraniana diventa un test sulle potenzialità di cooperazione all’interno del confronto tra potenze con Russia e Cina — entrambe parte del Nuke Deal (Jcpoa) del 2015 con Teheran. Fin dove Mosca e Pechino useranno le loro leve per mettere in difficoltà Washington sul Jcpoa? Si dimostreranno responsible stakeholder nell’affrontare l’Iran nel quadro di una cooperazione internazionale mirata alla stabilità di un quadrante turbolento?
La stabilizzazione di questioni complesse è ciò che attira l’interesse americano sul dossier specifico, che diventa un gancio di avvio per la costruzione di un’architettura di sicurezza ed equilibrio che permetterebbe agli Usa di gestire la situazione con maggiore disimpegno. Disimpegno che però non può costituire una perdita di influenza — soprattuto a vantaggio dei rivali. Per questo l’idea di Washington è creare meccanismi di sostituzione come quello che la Nato sta attivando in Iraq per rimanere presente, attiva sia nel confronto al terrorismo sia nel marcare il territorio davanti alle altre potenze interessate.
Gli alleati percepiscono la necessità americana — non senza pensare a spazi e contropartite. Gli europei sulla Nato in Iraq si sono dimostrati disponibili per esempio. Quelli regionali si sono messi in moto su vari dossier tutti rivolti verso la stabilità. Israele per ora non ruggisce sulla riapertura all’Iran; il Golfo ha deciso la fine dell’isolamento del Qatar; l’Arabia Saudita ha accettato il rilascio di un’attivista; gli Emirati Arabi parlano di un anno di de-escalation; o allargando il quadro la Turchia riparala con la Grecia.
Il punto dunque non sta nel delineare questo generale disimpegno, né tantomeno nello spingerlo all’estremo, ma per i pianificatori americani il nocciolo della questione sta nel comprendere come l’area (Mena + Africa centrale) possa essere inserita adesso nella grande partita strategica statunitense. Anche perché vale la pena ricordare che gli Stati Uniti hanno ancora diversi interessi piazzati in quella regione (o in quelle regioni), nonostante abbiano raggiunto l’indipendenza energetica (un tempo ragione della presenza regionale).
E per altro il Medio Oriente è il principale fornitore energetico dell’Asia – e d’accordo che la transizione energetica ridurrà la dipendenza dalle fonti fossili, ma nel breve periodo non sarà esattamente così. Lo sforzo per gli Stati Uniti sta tutto nel far passare il messaggio tra rivali proattivi intenzionati a sfruttare gli spazi apparentemente lasciati liberi, e tra i partner ansiosi di comprendere quale sarà il loro destino americano.