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Minacce eversive attuali e infosfere estremistiche. Un manuale di contrasto

Di Arije Antinori e Anna Maria Cossiga

Il movimentarismo connettivo violento, tra odio tradizionale e neo-cospirazione, e le sue radici (cyber-) sociali. L’analisi di Arije Antinori e Anna Maria Cossiga

La pandemia Covid-19 non ha determinato solo la tanto imponente quanto triste perdita di vite umane, ma devastanti impatti, ancora in essere, sui sistemi economico, politico e sociale. A livello strategico è stato, quindi, possibile evidenziare sin dal principio i limiti di gestione della complessità, dei sistemi di prevenzione, dello scambio informativo, di coordinamento e cooperazione tra Stati, sia a livello regionale che globale, così come l’incapacità di attuare efficaci strategie multidimensionali di risposta e resilienza. Tutto ciò ha prodotto conseguenze pesanti sulla vita delle persone, favorendo l’emersione di nuove e più profonde vulnerabilità sia a livello individuale che sul piano generazionale.

Il vero e proprio sconvolgimento causato dalla pandemia è risultato particolarmente evidente nel web e nei social media, ormai nostro vero e proprio ecosistema (cyber-)sociale, che ha ospitato teorie razziste, antisemite e antisistema che rivisitano, in chiave moderna, quelle più vecchie e “tradizionali”, cospirazionismi di varia estrazione e fake news, il tutto mescolato a posizioni antiscientifiche e a esoterismi di nuova e vecchia matrice. L’ecosistema (cyber) sociale diviene, così, il meta-territorio in cui gemmano le infosfere dell’estremismo, una sorta di laboratorio globale e globalizzante dove l’attualità e il passato si connettono, sovrappongono e talvolta si fondono in esperimenti di odio e violenza che travasano, pericolosamente, nelle strade delle principali capitali occidentali. Le stesse misure per il contenimento della pandemia, i vaccini e, più di recente, l’obbligo di green pass per tutti i lavoratori, sono diventate un nemico contro cui lottare in nome di una libertà di cui, però, ci sembra si sia perso il significato vero. E se è giusto segnalare che, spesso, i contraddittori messaggi lanciati in rete provengono da tutte le aree di influenza politica, appare evidente la polarizzazione nella direzione della cosiddetta estrema destra. 

Da qualche anno, ormai, il preoccupato interesse per tale proiezione ideologica, soprattutto on-line, ha coinvolto l’Intelligence e le Forze dell’Ordine di numerosi Paesi, compresa l’Italia. Il lungo periodo della pandemia, inoltre, ha significato una crescente dilatazione della presenza online da parte dei cittadini. Alle tradizionali narrazioni antisemite e razziste del nazismo e dei fascismi storici, si sono aggiunte, con il mutare delle condizioni socioeconomiche a livello globale, quelle xenofobe, islamofobe e omofobe, che ormai fanno parte del corredo ideologico dell’estremismo neofascista e neonazista. Già lo scorso anno, la Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza avvertiva che l’ultradestra aveva intensificato “la propaganda circolante su web, social network, chat e piattaforme di messaggistica” concorrendo “ad alimentare il fenomeno dell’estremismo violento e a favorire percorsi di radicalizzazione tra comunità di utenti sempre più estese e meno relegabili agli specifici ambienti di riferimento”. Sono in continua evoluzione, infatti, «i contenitori online in cui anche soggetti privi di specifico background ideologico, tra cui molti giovani affascinati dalla “gaming culture”, possono indottrinarsi ed attingere ad un coacervo di teorie e pseudo-ideologie, spesso interconnesse, che propugnano il ricorso alla violenza indiscriminata”.

Tale propaganda si serve, come abbiamo detto, di una narrazione “tradizionale” adeguata al contesto della cosiddetta post-modernità.

Troviamo così teorie come quella della “grande sostituzione” (il nome deriva dal libro Le grand replacement di Renaud Camus, pubblicato in Francia nel 2011) che rielaborano idee razziste e antisemite di vecchia data. Il nucleo di tale teoria consiste nella convinzione che le correnti migratorie non siano frutto di una contingenza, ma siano strategicamente organizzate da un’élite, variamente connotata, che favorisce l’arrivo nei Paesi occidentali di minoranze non-bianche e di cultura diversa dalla “nostra”. Apparterrebbero all’élite l’ultra-capitalismo finanziario – in genere definito “giudaico-massonico” – che vuole controllare il mondo, e, allo stesso tempo, la sinistra comunista. Lo scopo sarebbe, per i finanzieri, quello di avere a disposizione una sorta di manovalanza a basso prezzo e, per i comunisti, quello di ricreare una classe operaia e rivoluzionaria. L’esito, in entrambi i casi, sarebbe quello di un “genocidio bianco”, della scomparsa, cioè, della maggioranza di “razza” bianca in Occidente, sostituita dagli immigrati provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, soprattutto musulmani.

Già il fatto che gli orchestratori del complotto siano la “grande finanza” da una parte e i “comunisti” dall’altra dovrebbe mettere il pubblico sull’avviso. Suona assai incongruente, infatti, che il capitalismo e la rivoluzione si alleino per raggiungere obiettivi opposti. Tale contraddizione, però, non è nuova: per esempio, nella tradizionale propaganda antisemita, di cui “I protocolli dei Saggi di Sion” sono l’esempio archetipico, gli ebrei, a capo del complotto per dominare il mondo, sono rappresentati sia come plutocrati, sia come rivoluzionari comunisti. Uno dei principali attori del complotto contemporaneo, poi, sarebbe l’onnipresente George Soros, di origine ebraica, a cui si aggiungono Bill Gates e, nella versione italiana, Carlo De Benedetti, editore “di sinistra” e, guarda caso, anche lui di origine ebraica.

La “grande sostituzione”, teorizzata in Francia e riferita al popolo francese, è diventata, poi, globale e i suprematisti bianchi di tutto il mondo la disseminano ampiamente nell’ecosistema (cyber-)sociale. Forse ancora più preoccupante è che la teoria sia stata abbracciata da partiti che partecipano al sistema democratico in tutta Europa.

Il sentimento antisemita, nella versione attuale, ha tuttavia una natura e un tono diversi. Come rilevato in un recente studio sul sentimento antiebraico in rete, “molto dell’antisemitismo [sul web] imita e riflette lo stile dello spazio online in cui viene articolato” , in modo tale che il tradizionale tono pseudo-accademico con cui venivano espressi gli attacchi in passato, viene sostituito con forme di derisione e di sarcasmo internet-friendly, cioè più adatte all’atmosfera “umoristica”, “leggera”, easy se così si può definire, che consente una più efficace veicolazione nell’oceano connettivo della stereotipia social. In altre parole, un odio che possiamo dire millenario è rimasto costante nel suo nucleo fondamentale, ma la forma e il lessico in cui viene espresso è stato aggiornato per raggiungere il nuovo pubblico e le nuove generazioni di ciascun secolo. E questo è vero anche per la nuova era digitale.

Ciò che forse colpisce di più, nelle attuali manifestazioni di sentimento antiebraico, è l’uso incongruente che viene fatto della figura dell’ebreo. Un esempio rilevante è quello della propaganda no-vax: da una parte, coloro che rifiutano il vaccino si paragonano, come “vittime” del sistema, agli ebrei perseguitati dai nazisti; dall’altra, un gran numero di essi appartiene alla galassia del neonazismo e del neofascismo ed esprime, dunque, forti sentimenti antisemiti.

All’antisemitismo, comunque, si accompagnano le posizioni islamofobe, dal momento che i musulmani sono il “simbolo di alterità” oggi più comprensibile al grande pubblico. Per esempio, il Rapporto annuale 2019 della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza sottolinea che “l’Europa si trova di fronte a una terribile realtà: i reati generati dall’odio antisemita e anti-musulmano, nonché altre forme di odio razziale si moltiplicano a un ritmo allarmante”. In molti Stati membri il nazionalismo xenofobo continua a esprimersi in senso islamofobico, spesso equiparando l’Islam al terrorismo jihadista e raffigurandolo come una religione “straniera”, un monolite sempre uguale a sé stesso nel tempo, privo delle sfumature culturali che lo caratterizzano, e del tutto incompatibile con la democrazia e i suoi valori, con la libertà individuale, con i diritti delle donne. Insomma, un “Nemico” da combattere e vincere prima che distrugga la “nostra” Cultura. Ciò spesso rafforzato dall’utilizzo in ambito giornalistico dei concetti distorsivi di estremismo e terrorismo “islamico” anziché islamista, quasi a lasciar intendere che la religione di per sé contempli, se non legittimi, la violenza eterodiretta. Come per l’antisemitismo, il sentimento anti-islamico viene espresso attraverso l’ecosistema (cyber-)sociale anche in modo “mascherato” per mezzo della facezia.

Un’altra teoria che, nell’ultimo anno, ha avuto una diffusione ormai divenuta planetaria è quella fabbricata dal movimento QAnon, nato negli Stati Uniti e particolarmente attivo durante l’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, insieme ad altri gruppi dell’ultra-destra. Secondo il movimento, che deriva il suo nome da un fantomatico individuo che avrebbe la possibilità di consultare documenti secretati a livello Q, il più altro grado di segretezza, gli Stati Uniti sarebbero governati da una congrega di pedofili, coinvolti in traffico di bambini a scopo sessuale, e adoratori di Satana. L’unico a poterli fermare sarebbe Donald Trump. Alla congrega apparterrebbero Hillary Clinton, che ne sarebbe il leader, Barack Obama, lo stesso Joe Biden e, naturalmente, Soros. Tali personaggi, insieme ad attori liberal di Hollywood e ad altri esponenti del Partito democratico americano, costituirebbero il deep state coinvolto nella creazione del Nuovo Ordine Mondiale. Per quanto fantasiosa la teoria possa sembrare, i seguaci di QAnon aumentano giorno dopo giorno, e non solo negli Stati Uniti. Inoltre, alcuni di loro sono stati recentemente eletti al Congresso americano.

L’irrazionalità sembra essere la caratteristica delle teorie del complotto e delle fake news che ormai popolano la nostra realtà, sempre più (cyber-)socializzata. Non possiamo non domandarci quale sia l’origine della convinzione in narrazioni che sembrano somigliare alle favole più buie della nostra infanzia. La questione, però, non è così semplice e quelle che chiamiamo favole sono più che racconti assurdi che sembrano create per spaventare i bambini. Ciò che gli estremismi raccontano, con le parole e con le immagini è, a nostro modo di vedere, l’espressione della paura e dell’incertezza che dominano le società e i singoli individui nel mondo globalizzato. Seguendo alcune riflessioni di matrice socio-antropologica, possiamo forse avanzare qualche teoria per cercare di capire l’apparente insensatezza di ciò che viene narrato. Per prima cosa, non sempre alcuni racconti sono frutto della pura irrazionalità. A volte, attraverso di essi, si tenta di trovare una risposta a ciò che temiamo e che non riusciamo ad affrontare – o non vogliamo – facendo appello alla sola realtà. Sono numerosi i casi in cui, nelle più diverse culture, si ricorre al passato per trovare risposte. Forse, anche per le narrazioni di cui abbiamo parlato, il meccanismo può essere questo: di fronte all’incertezza e alle difficoltà di un presente frazionato e “liquido”, si cerca riscontro in un passato idilliaco che non c’è più, o nelle risposte che altri, prima di noi, hanno già dato. Anche se quelle risposte non hanno offerto alcuna soluzione a livello pratico, sembra più facile incolpare “qualcun altro”, anzi l’“Altro”, non “Noi”, delle avverse vicende, come facevano i nostri progenitori. Se un tempo si incolpavano gli ebrei per le pestilenze, oggi i responsabili della carenza di lavoro o di case popolari sono gli immigrati, che “ci rubano ciò che è nostro”, come ritualmente celebrato nelle narrazioni delle infosfere dell’odio. Non vi era, e non vi è, alcuna ragionevolezza, in queste teorie, ma scaricavano, e scaricano, le coscienze dalla presa di responsabilità. Se riflettiamo su alcune osservazioni dell’antropologo Arjun Appadurai, acuto osservatore dei mutamenti avvenuti a causa della globalizzazione, possiamo forse comprendere meglio ciò che accade ai nostri giorni. L’autore scriveva tra la fine degli anni Novanta del Novecento, e i primi anni del 2000, ma le sue parole sono più che valide anche se riferite all’oggi.

Rispetto al passato di cui si cerca il conforto, la globalizzazione ha caratteristiche profondamente diverse. Basta pensare ai nuovi strumenti finanziari che circolano a livello planetario; alle tecnologie informatiche, che sono parte integrante di tali strumenti; alle migrazioni di un numero mai raggiunto di persone. La circolazione ingente e senza confini di denaro – tangibile o digitale –, di informazioni e di persone ha determinato, da una parte, la destabilizzazione della sovranità nazionale e, dall’altra, “tensioni mai viste tra le identità”. A chi dare la colpa, dunque, per una situazione che genera incertezza a tutti i livelli? I colpevoli sembrano essere due: le élite e gli “altri”, i migranti, gli stranieri. Entrambi, in un modo o nell’altro, vogliono dominare “noi”. I due “colpevoli” compaiono, talvolta insieme, talvolta singolarmente, come attori protagonisti di tutti gli scenari apocalittici proposti dai gruppi estremisti. Così le élite che tramano per il Nuovo Ordine Mondiale vedono politici della parte avversa fare traffico di minori insieme al finanziere ebreo Soros, appartenente ad una minoranza, quella ebraica, che ancora, dopo secoli e secoli, è l’archetipo dell’“Altro”. Oppure, la maggioranza bianca, temendo di diventare minoranza, vede nei migranti originari da un “Altrove” di diversa etnia, cultura e religione, si vede minacciata nella sua “purezza” – mai realmente esistita – e teme la “grande sostituzione”.

Sono temi antichi adattati al nostro presente che continuano ad essere pericolosi; anzi, considerando proprio la globalizzazione delle informazioni, lo sono di più, perché arrivano ad un pubblico ampio, in maggiore quantità e più velocemente. Lo sono particolarmente per i giovani, più avvezzi all’uso del web e dei social media e più immediatamente influenzabili, anche a causa dell’uso di immagini accattivanti e di riferimenti a videogiochi che sono parte integrante della loro esistenza.

Va detto, tuttavia, che il richiamo al passato non spiega del tutto il fenomeno. Non bisogna dimenticare, infatti, che tutto avviene nel nostro momento post-moderno, in cui gli estremisti conoscono bene le nuove tecnologie e la centralità dell’esperienza nell’ecosistema(cyber-)sociale. Questi ultimi sono capaci di creare identità forti proprio quando le stesse risultano deboli nel mondo tangibile. Inoltre, adattando al nostro tema le parole di Andrea Sartori, abituati come siamo a ragionare in termini di like e dislike, “ci stiamo assestando su di una visione del mondo nella quale vale solo l’alternativa (anti-dialettica e anti-relazionale) tra … l’amore e l’odio. Questa forma di manicheismo … è oggi implementata dall’intelligent design sui social networks e diventa di giorno in giorno un habitus … il design così inteso sorvola sugli aspetti non semplicemente bianchi e non semplicemente neri della realtà, ed è progettato per essere addictive, per determinare il nostro comportamento ed esonerarci dalla fatica del pensare, di vedere l’intreccio grigio dei fili bianchi e neri […]”. Il manicheismo, la volontà di nascondere le sfumature che intercorrono tra il bianco e il nero, sono una delle caratteristiche basilari delle ideologie estremiste che, come appare evidente, sanno utilizzare alla perfezione l’intelligent design per determinare il comportamento dei propri adepti e instillare amore per gli “uguali” e odio per gli “altri”.

Quegli altri con cui l’individuo vive, giorno dopo giorno, la propria esperienza disintermediata nell’ecosistema (cyber-)sociale, ove lo sviluppo del mercato delle piattaforme socio-relazionali si va sempre più caratterizzando per il dominio della domanda sull’offerta, ridisegnando così al contempo il rapporto di forza tra piattaforme e governi, ma forse, sul lungo termine, anche quello di cittadinanza.

Il mutamento tecnosociale, nella congiuntura della crisi pandemica, ha fornito terreno fertile all’’infodemia e alla disseminazione mis-/disinformativa facilitate dalla contrazione della mobilità umana e dalla conseguente espansione della (cyber-)socialità, favorendo così la diffusione orizzontalizzata e transgenerazionale dell’ansia, dell’incertezza, sia a livello individuale che collettivo, nonché dell’insicurezza percepita. In tale contesto, l’ecosistema (cyber-)sociale risulta popolato da una moltitudine di potenziali punti di ancoraggio “magnetico” per la radicalizzazione e autoradicalizzazione violenta, in grado di attrarre soprattutto i giovani screenager, destinati a crescere e maturare in uno scenario di crisi multidimensionale caratterizzato dalla post-verità. Qui, in particolare, le sirene della comunicazione ambigua sono pronte ad esercitare tutto il loro potere attrattivo, come nelle campagne di memetic warfare che si propagano con particolare facilità all’interno dell’infosfera neo-fascista e neo-nazista.

Nell’atemporalità e ridondanza comunicativa che caratterizza le infosfere estremistico-violente, vengono coltivate la rabbia e l’odio, incubatori dell’esplosività più violenta e distruttiva pronta a determinarsi sulle strade in occasione di manifestazioni collettive di protesta, sempre più “connettive”, in grado di radunare in un magma fluido e dilagante singoli individui e/o piccoli aggregati provenienti da diversi ambiti subculturali.

All’epoca della post-verità, l’eversione dell’ordine democratico si determina, non più attraverso un’azione collettiva, strutturata e militarizzata, che coinvolge la massa de-individualizzata, ma per mezzo di campagne, spesso profonde, di inculturazione e coltivazione del dissenso “liquido” che hanno come target i singoli individui nella loro condizione di individui atomizzati. Tali campagne sono volte spesso all’erosione della fiducia nelle istituzioni e nella partecipazione elettorale, quasi a voler sancire in modo connettivamente condiviso l’ineluttabilità del cambiamento all’interno del framework democratico, a favore della promozione più o meno esplicita dell’azione spontaneistico-violenta talvolta incanalata nel flusso della contestazione in essere ed orientata ai danni di target simbolici, secondo un disegno preordinato. Anche in virtù dei dati relativi alle ultime competizioni elettorali e delle recenti manifestazioni violente relative alle questioni no-vax e no-green pass, tale dinamica deve suggerire un ribaltamento prospettico nell’osservazione del tradizionale fenomeno dell’astensionismo, da espressione passivistica e rinunciataria, alla sua ridefinizione – se pur parziale – di movimentarismo connettivo violento, reazionario e antisistemico che, soprattutto i diversi attori storici dell’estremismo neo-fascista e neo-nazista stanno cercando di convogliare. Diviene, pertanto, cruciale per le istituzioni deputate all’attività di analisi – strategica, operativa e tattica – ai fini della prevenzione e del contrasto, la necessità di sviluppare nuovi modelli interpretativi della minaccia che si fondino sulla capacità socio-antropologica di “intus-legere” la profonda natura (cyber-)sociale e l’essenza umana della complessità dell’esperienza connettiva come substrato di coltivazione, inculturazione, radicalizzazione e autoradicalizzazione violenta.

Infatti, le narrazioni eversive nelle infosfere estremistico-violente colpiscono il soggetto destrutturandolo identitariamente, nelle sue dimensioni costitutive di individuo, cittadino e membro della comunità attivandone la risposta emotiva su base violenta. Si assiste, pertanto, all’ampia diffusione della sfiducia nel governo, di rinforzo delle nozioni e delle credenze precostituite, delle teorie complottistiche e del “cospireazionesimo”, così come all’innalzamento del conflitto sociale, rinvigorito dalla rivitalizzazione spesso superficiale delle tradizionali ideologie violente e dall’emersione delle nuove forme di estremismo violento. Si assiste, pertanto, alla weaponizzazione della cittadinanza nell’ecosistema (cyber-)sociale, ossia l’utilizzo dei cittadini come arma di destabilizzazione e destrutturazione interna, che può favorire se non generare, causali lacerazioni del tessuto socio-culturale. Queste possono, inoltre, rappresentare, nel medio e lungo termine, potenziali spazi di penetrazione per attori esteri intenti a influenzare, interferire e condizionare – per mezzo di attori proxy – le decisioni di rilevanza strategica a livello locale con conseguenti impatti su quello nazionale.

Nel frattempo, si forniscono, grazie a narrazioni ad hoc, risposte semplici e lineari a problematiche estremamente complesse, contribuendo così alla sedimentazione/accettazione di modelli interpretativi dell’esistente all’interno dei quali la violenza è promossa quale unico strumento a disposizione per poter determinare un mutamento sostanziale dello status quo, e promessa come attestazione di coerenza e fermezza antisistemica.

Appare evidente come nell’ottica di porre in essere efficaci strategie di contrasto, prevenzione e, soprattutto anticipazione, oggi, dell’evoluzione delle minacce eversive, risulti fondamentale impedire che le infosfere estremistico-violente divengano il reame dell’illusione, il luogo in termini esperienziali di ridefinizione del reale attraverso il filtro della distruttività violenta.



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