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Qual è l’obiettivo finale di Del Vecchio nella guerra per Generali?

Chi lo conosce racconta una visione quasi onirica: vuole lasciare un segno nella storia finanziaria italiana, spingendo a tutti i costi i dirigenti Generali verso una mega-operazione. Con Unicredit e Mediobanca? A manovrare tutto è il fidato Francesco Milleri, ma investitori e azionisti sono al buio sui suoi piani e sulla sua successione. Il caso Agnelli insegna

Una domanda resta sospesa davanti alla più intensa battaglia azionaria degli ultimi tempi: perché Leonardo Del Vecchio a 85 anni si è trasformato in un raider dopo una vita dedicata a costruire un impero industriale senza interessarsi troppo di salotti buoni o cattivi, scalate e partecipazioni? Chi conosce l’uomo più ricco d’Italia – secondo il Billionaires index di Bloomberg, nell’ultimo anno ha aggiunto $9 miliardi al suo patrimonio raggiungendo i Ferrero a 34 miliardi – crede che dietro alle scalate Mediobanca/Generali ci sia la volontà di lasciare un segno nella storia, di associare il suo nome alla più grande operazione finanziaria italiana di sempre.

Nella sua testa, un’azienda o cresce in maniera esponenziale, o non ha senso di esistere: lui, un ex “martinitt” (dal nome dell’istituto per orfani milanesi), attraverso fusioni e acquisizioni ha portato Luxottica dai terreni regalati dal comune di Agordo a essere un gigante globale con 140mila dipendenti, 17 miliardi di fatturato e 2,8 miliardi di utili (dati 2019). Nel percorso però ha dovuto cedere una grossa fetta: dell’attuale EssiLux controlla ormai il 32%, e metà dell’azienda ha il cuore a Parigi, anche se per qualche anno il timone resterà al di qua delle Alpi.

TUTTO PARTE DALLO IEO

Dunque che fare con il considerevole gruzzolo accumulato in questi anni, e in particolare dopo la fusione con Essilor? Continuare a espandersi comprando la catena di ottica GrandVision, certo. Oppure trasformarsi nel re della sanità milanese: nel 2018 mette sul piatto 500 milioni di euro per lo Ieo, il polo di eccellenza dell’oncologia voluto da Umberto Veronesi, ma non come semplice donazione. Nei piani, la sua fondazione avrebbe preso in mano la gestione dell’Istituto. Gli altri azionisti, tra cui spiccano Mediobanca, Unipol, Intesa, Pirelli, Banco Bpm e Mediolanum, non gradiscono questa “opa ostile” e respingono l’offerta, che li avrebbe diluiti e resi ininfluenti.

È questo rifiuto a scatenare la catena di eventi che ci porta a oggi: nel 2019 compra il 7% di Mediobanca e inizia a premere per un cambio di passo nella gestione, sfidando il ceo Alberto Nagel all’assemblea 2020. Ma il manager vince il primo round e ottiene la riconferma, soprattutto grazie a un dettaglio: il sistema bancario non è un’industria come le altre. A differenza dell’occhialeria, è pesantemente regolamentato e attentamente vigilato. Con il suo avvocato Sergio Erede, Del Vecchio è costretto a chiedere alla Bce l’autorizzazione per crescere prima al 10% e, mesi dopo, al 20%.

Da Francoforte il via libera arriva solo a condizione di non creare terremoti nella gestione di un istituto chiave nel sistema italiano. Mediobanca non è più una cassaforte di partecipazioni strategiche come ai tempi di Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi, ma resta una banca d’affari, che nel frattempo è diventata anche commerciale (con CheBanca!) e attiva nel credito al consumo (Compass).

L’altro dettaglio è che in Europa le banche controllate da un privato o da una famiglia si contano sulle dita di una mano (mutilata). Si tratta di istituti relativamente piccoli, o in fase di transizione. O, come nel caso di Santander, in cui il peso degli azionisti privati è legato più alle tradizioni che alle azioni (i Botìn hanno solo il 2%, eppure continuano a dettare la linea). Da questo derivano le bizantine procedure richieste dalla Bce: una mossa come quella di Del Vecchio non si è mai vista da quando esiste la banca centrale europea.

IL RUOLO DI MILLERI

FRANCESCO MILLERI AD LUXOTTICA

Chi porta avanti la battaglia? Se sul piano legale c’è l’avvocato Erede, su quello manageriale un ruolo di primo piano lo ricopre Francesco Milleri. Amico e vicino di casa della coppia formata da Del Vecchio e Nicoletta Zampillo, 62 anni, nel 2007 inizia a fornire software gestionali per Luxottica, fino a occuparsi solo dell’azienda con un contratto che nel 2019 arriva a 60 milioni di euro l’anno. Sarà lui “a sostituirmi in Essilux nel caso io venissi a mancare”, svela il fondatore al Corriere nel 2017. E l’anno scorso, al Messaggero, aggiunge: “Ha saputo tradurre la mia visione in azioni, e poi in risultati. Apprezzo in lui la chiarezza e la semplicità con cui riesce ad affrontare situazioni molto complicate e la capacità di restare focalizzato sull’obiettivo finale senza mai mollare”. Tenete a mente la visione, concetto fondamentale per rispondere alla domanda di questo articolo.

Dagli inizi durante l’ormai mitologica gestione di Andrea Guerra, finita in modo brusco nel 2014, Milleri nel suo ruolo di segretario-consulente-uomo ombra di Del Vecchio ha visto cadere parecchi amministratori delegati (quattro in tre anni) prima di diventare lui l’erede designato a guidare il gruppo e decidere le strategie più ampie di Delfin, la cassaforte lussemburghese in cui tutti i membri della famiglia hanno quote paritarie – ma i fili sono retti da Del Vecchio senior, Zampillo e Milleri. Che, non a caso, è amministratore unico di Delfin H, la società che doveva prendere il controllo dello Ieo.

L’OBIETTIVO FINALE È IL GIGANTE MEDIOBANCA-UNICREDIT-GENERALI?

In Mediobanca Delfin è arrivata al 20%, vicino alla soglia dell’opa (25%), e in ogni caso la governance non sarà di nuovo in ballo fino all’assemblea 2023 (salvo i suddetti terremoti). I suoi cannoni carichi di liquidità da qualche mese si sono riorientati su Generali. Con l’altro ultra-liquido Francesco Gaetano Caltagirone e la Fondazione Crt ha creato un patto di consultazione per sostituire, all’assemblea di aprile 2022, l’ad Philippe Donnet, reo a suo dire di non aver ingrandito abbastanza il gruppo “Luxottica style”, cioè con acquisizioni, fusioni e rilanci. Donnet in realtà ha da poco concluso l’operazione su Cattolica, e presentato conti molto superiori alle attese, ma il parametro di Del Vecchio sono i giganti europei Axa, Zurich e Allianz.

Senza entrare nei dettagli di quello che sta succedendo tra Milano e Trieste – tra liste del cda, disegni di legge contro le liste del cda, movimenti dietro le quinte di Benetton, Monge, De Agostini ecc. – è interessante capire quale sia l’endgame di Del Vecchio e Milleri, rappresentati in Generali da Romolo Bardin, che si definisce indipendente pur essendo ceo di Delfin e lavori per le società di Del Vecchio dal 2002. Fondere le Assicurazioni con Mediobanca? Aggiungere a questo duo Unicredit, per creare il più grande polo finanziario italiano?

L’unione tra Generali e Piazzetta Cuccia, da sempre legate da vincoli azionari, non è certo un’idea nuova. Chi vi si oppone, considera scarse le sinergie e difficile l’integrazione vista la differenza di dimensioni – circa 3 a 1. Unicredit, una delle poche partecipazioni azionarie che Del Vecchio si porta dietro da decenni, è uscita dal capitale di Mediobanca ed è impelagata nel ginepraio Mps. Sul piano antitrust, questo trio creerebbe non pochi grattacapi, oltre a essere impossibile da controllare in termini di capitale, anche per un arci-miliardario (e Caltagirone non intende fare di nuovo il pesce piccolo in uno stagno grande, anzi vuole dire la sua nel board Generali).

Eppure, chi lo ha incontrato in questi due anni pensa che questa sia la visione, quasi in senso onirico, del magnate: scrivere il suo nome nella storia non solo come creatore di EssiLux ma come architetto della più grande operazione finanziaria italiana di sempre.

UN’EREDITÀ COMPLICATA

Chi lo ha incontrato racconta anche che Del Vecchio e Milleri sono in grande sintonia, tanto che il manager finisce le frasi del patron. Sia che l’operazione Generali vada in porto, sia che il mercato scelga il fronte Nagel-Donnet, nessuno sa ancora chi dovrebbe guidare il primo gruppo assicurativo secondo il neonato patto di consultazione. Tanto meno vi è chiarezza su chi guiderà l’impero della famiglia Del Vecchio quando il fondatore non vorrà o potrà più farlo. E questo è uno dei motivi principali di diffidenza da parte di fondi e investitori.

Probabilmente non toccherà, almeno non subito, a uno dei sei figli, avuti con tre donne diverse e ognuno dei quali ha una quota del 12,5% di Delfin (la moglie gestisce il 25% che Del Vecchio senior ha riservato per sé). Per ora le decisioni devono essere prese dall’88% delle azioni, obbligando tutti alla massima sintonia. Il maggiore Claudio (64 anni) ha da poco ceduto le attività di Brooks Brothers, storico marchio della East Coast americana che aveva rilanciato prima di assistere a una nuova crisi.

Marisa e Paola hanno preso strade diverse. Il giovane Leonardo Maria (26), unico figlio di Nicoletta Zampillo, è il primo a essere entrato nel cda di Luxottica contraddicendo il motto paterno, “i figli devono restare fuori dall’azienda perché non si possono licenziare”. Da poco si è sposato con Anna Castellini Baldissera – pronipote di Vincenzo Maranghi (i casi della vita) e figlia degli eredi Ramazzotti (quelli dell’amaro) – ma è ancora troppo inesperto per essere presentato al mercato come nuovo timoniere. Luca e Clemente, figli della seconda compagna Sabrina Grassi, sono ancora più piccoli.

Il padre avrà forse dato disposizioni su chi prenderà il suo posto nel suo testamento? Non è chiaro. Se fosse Milleri, non sarebbe facile comandare senza una quota rilevante della Delfin. Nel 2019 Leonardo Del Vecchio ha trasferito la propria residenza dal Principato di Monaco – dove passava metà dell’anno dal 2010, tra una splendida villa e uno yacht cablato per essere sempre connesso – al Lussemburgo, come la sua holding. Che, a dispetto delle indiscrezioni circolate quest’estate per rintuzzare le critiche sull’italianità del gruppo, è tuttora nel Granducato e gode del favorevole regime fiscale.

Il diritto internazionale privato prevede che a una successione si applichi la legge del luogo di residenza del de cuius. In Lussemburgo, come in Italia, vige la quota di legittima, che riserva ai figli (se sono più di tre) il 75% dell’asse ereditario. Diversamente dal nostro ordinamento, ai coniugi per legge spetta solo l’usufrutto sulla casa comune. Il restante 25% va alla moglie o al marito solo se il defunto non ha disposto diversamente.

L’esempio degli Agnelli insegna che le questioni ereditarie, pur con i migliori avvocati e le rinunce espresse da parte di alcuni protagonisti, possono trascinarsi per decenni. E nel caso del salto generazionale tra Gianni Agnelli e John Elkann, il futuro della Fiat era stato disegnato di comune accordo tra l’Avvocato, i suoi consiglieri Franzo Grande Stevens e Gianluigi Gabetti, la moglie Marella Caracciolo e i nipoti John, Lapo e Ginevra. Con il contributo fondamentale di Sergio Marchionne, che ha garantito che ci fosse ancora una società (e in ottima salute) quando è arrivato il turno di John.

Nella dinasty degli occhiali non pare di vedere un disegno altrettanto chiaro, né protagonisti altrettanto pronti a guidare un processo da far tremare i polsi. Sapremo qualcosa prima della fatidica assemblea Generali?



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