Per la terza volta in un decennio, il Pentagono potrebbe vedersi approvare il budget annuale dopo la scadenza di dicembre. Ieri il voto compatto dei repubblicani al Senato ha stoppato il complesso iter di approvazione del National Defense Authorization Act, per circa 740 miliardi di dollari. I membri del Gop se la sono presa con la gestione dell’agenda da parte del leader democratico Schumer e per l’esclusione di alcuni emendamenti da loro proposti, a partire dalle sanzioni per il gasdotto Nord Stream 2
Battuta d’arresto a Capitol Hill per il maxi budget della Difesa americana per il 2022, destinato a confluire in un pacchetto da almeno 740 miliardi di dollari. Il confronto tra repubblicani e democratici ha portato a rinviare la discussione al Senato sul National Defense Authorization Act (Ndaa). I 51 voti a favore (46 i contrari) non hanno permesso di superare la fatidica soglia dei 60 necessari ad avviare il dibattito.
Hanno pesato i voti contrari di alcuni dem, tra cui quello della candidata alle primarie per il voto dello scorso anno Elizabeth Warren, alla testa dei progressisti che ritengono inaccettabile l’aumento della spesa per la Difesa. Ha pesato soprattutto la compattezza del partito repubblicano intorno al leader Mitch McConnell, che ha criticato la gestione dell’agenda dei lavori da parte di Charles Schumer, leader della maggioranza, accusato di aver ritardato la presentazione del testo per cercare di accelerarne il passaggio in aula. Venerdì scorso, Shumer ha presentato all’aula il voto sul testo, corredato da 18 emendamenti al progetto di Ndaa approvato dal Comitato Armed Services a luglio. Ma per i repubblicani gli emendamenti dovevano essere di più, compreso uno (tra i più contestati), per mettere nero su bianco l’obbligo di far scattare sanzioni sui Paesi coinvolti nel Nord Stream 2. Un obbligo che non piace all’amministrazione di Joe Biden, perché (come riporta un funzionario a The Hill) “minerebbe l’unità transatlantica”, andando a colpire la Germania.
Il risultato è uno stop al complesso iter di approvazione del Ndaa, che rischierebbe, se non superato con rapidità, di incastrarsi con il prolungamento della “Continuing resolution” (in scadenza venerdì), la misura che permette al Congresso di finanziare il governo federale per un tempo limitato nei casi in cui non sia terminata l’approvazione del bilancio. Lo scenario peggiore, ritenuto comunque improbabile dai media d’oltreoceano, è lo shutdown, cioè il blocco delle attività federali. Difficile comunque che il Ndaa resti bloccato a lungo. Considerato una legge “must-pass”, solo due volte negli ultimi undici anni ha superato dicembre per approdare nell’anno successivo. La lunghezza dei tempi è legata a un iter piuttosto complesso, che procede separatamente nei due rami del Congresso, prima nei Comitati Armed Services, e poi nelle aule. Solo dopo le due approvazioni assembleari iniziano le negoziazioni tra Camera e Senato, per giungere a un testo condiviso da presentare alla firma del presidente. Tutto ha inizio con la presentazione delle richieste di budget da parte dell’amministrazione.
La richiesta presentata a maggio dall’amministrazione guidata da Joe Biden ammontava a 753 miliardi di dollari per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Per il Pentagono si prevedevano 716 miliardi, 11,3 in più rispetto all’anno in corso, sette in meno rispetto ai piani formulati da Donald Trump. L’aumento su base annuale sarebbe pari all’1,6%, pressoché come l’inflazione attesa. Sin dalla sua presentazione, la richiesta si preannunciava soggetta a forte dibattito all’interno del Congresso, con la previsione di modifiche considerevoli nel corso dei vari passaggi parlamentari. A far discutere sono stati i disinvestimenti pianificati sui sistemi “legacy” (-6%), che nella richiesta presentata dall’amministrazione colpivano diversi grandi programmi per tutte le forze armate (più colpita la US Navy, superando il piano Battle 2045 proposta da Trump).
Per Joe Biden e il capo del Pentagono Llyod Austin, il programma di disinvestimento era più che bilanciato dal forte incremento (+5%) delle dotazioni per ricerca, sviluppo, test e validazione (RDT&E), per cui si richiedono 112 miliardi. È la spinta all’innovazione che la Difesa Usa promuove da tempo, nella consapevolezza che la nuova “great power competition” si gioca soprattutto sulle tecnologie dirompenti: 5G, intelligenza artificiale, quantistica e cyber. Sostanzialmente, dunque, la richiesta puntava a ridurre i costi di approvvigionamento e manutenzione sui sistemi attuali, così da spingere sulla ricerca delle nuove tecnologie. Secondo gli esperti, ciò si sarebbe potuto tradurre in una riduzione nel breve/medio termine della prontezza operativa, a favore del mantenimento del vantaggio tecnologico sul lungo periodo, a patto che i programmi di ricerca e sviluppo venissero poi rapidamente inglobati nel procurement di servizi e sistemi.
Tale prospettiva appare al momento superata. Al Congresso gli interessi di forze armate e grandi industrie (per nulla disposte a vedere tagliati i programmi sui grandi sistemi d’arma) hanno maggiore capacità di influenza e pressione. Non a caso, a luglio, il Comitato Armed services del Senato (a maggioranza repubblicana) ha approvato una bozza di Ndaa che aggiunge ben 25 miliardi di dollari alla richiesta dell’amministrazione, rimpinguando i vari programmi ridimensionati. Aggiunge (tra gli altri) sei F-35, un cacciatorpediniere di classe Burke, 130 milioni per i sottomarini balistici di classe Colombia, cinque F-15EX, due velivoli da trasporto C-130J e due tanker KC-130J.
A inizio settembre lo stesso è accaduto presso l’omologo Comitato Armed services della Camera dei rappresentanti, che ha approvato una versione di Ndaa promossa dal leader dell’opposizione repubblicana Mike Rogers con 24 miliardi in più rispetto alla richiesta dell’amministrazione, tra cui 9,8 miliardi per il procurement di sistemi d’arma e 5,2 miliardi per ricerca e sviluppo (a testimonianza che, comunque, l’attenzione alle tecnologie disruptive in campo militare resta bipartisan). Proprio questa versione ha ottenuto il via libera dall’aula della Camera a fine settembre, con 316 voti a favore e 113 contrari. A nulla sono valsi i tentativi dei democratici progressisti (i più determinati a bloccare l’aumento del budget), i cui emendamenti per evitare i 24 miliardi in più sono stati stoppati anche dai colleghi di partito.
Alla Camera, a convincere la maggioranza dei dem ad appoggiare la proposta repubblicana sono stati soprattutto tre elementi: la condivisione dell’esigenza di potenziare lo strumento militare per il confronto con la Cina (tema, lo ripetiamo, bipartisan); la volontà di sostenere l’aumento degli stipendi per il personale della Difesa previsto da Biden (+2,7% da gennaio); le novità introdotte dopo l’epilogo drammatico dell’uscita dall’Afghanistan. Tali temi non sono riusciti a determinare la stessa convergenza al Senato, dove i repubblicani hanno fatto pesare le percentuali maggiori, accusando della lunga attesa per la discussione in aula il senatore Schumer. Eppure, gli stessi Gop si dicono pronti ad accelerare, a partire dal leader del partito al Comitato Armed Service, James Inhofe.