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Quagliariello chiama Chiesa e secolo. Quale modello dopo il Covid?

Il senatore e presidente della Fondazione Magna Carta a Formiche.net presenta la due giorni di Anagni: “La società ha subìto una perdita secca che potrebbe tradursi anche in una perdita di vitalità e di speranza, una contingenza che secondo me dovrebbe essere posta all’attenzione, in particolare, della Chiesa”

Fino a prima della pandemia lo sviluppo era inteso come vivere in metropoli sempre più grandi, gestiti da sistemi sanitari sempre più accentrati e da modalità di trasporto sempre più “omologanti”. Tutto ciò, alla luce di ciò che è accaduto, meriterebbe un ripensamento ma senza cadere nelle teorie di esaltazione del declino.

Parte da questo assunto il ragionamento che il senatore Gaetano Quagliariello affida a Formiche.net per presentare la due giorni di studi ad Anagni il 27 e il 28 novembre promossa dalla Fondazione Magna Carta di cui è presidente, alla presenza di esponenti del mondo della politica, del giornalismo e della teologia. Non è retorica interrogarsi su quali effetti abbia prodotto il Covid sulle fasce sociali, su quelle economiche e politiche: ma lo spunto da cui partire tocca proprio il ruolo della Chiesa e del secolo dopo questo biennio tragico.

Chiesa e secolo dopo la pandemia: paradossalmente un evento tragico può contribuire ad una trasformazione in positivo?

Solitamente le grandi catastrofi nella storia dell’umanità hanno determinato grosse opportunità, caratterizzate da sviluppo e progresso. Chi conosce la storia sa che questa è una tendenza che si riscontra sul lungo periodo, ma una tendenza non è mai una certezza. La storia, poi, viaggia sulle gambe degli uomini: questo è uno dei motivi per i quali oggi appare fondamentale capire che la pandemia, da cui non siamo ancora usciti, ha modificato la realtà.

Quanto e come?

Un bellissimo libro che si riferisce alla Prima Guerra Mondiale, “Il mondo di ieri”, scritto da Stefan Zweig, racconta che quando cessò quella guerra il mondo fu poi differente. Personalmente non sono incline ai parallelismi storici, ma di una cosa sono certo: il mondo della pandemia è il mondo di ieri.

E oggi?

Oggi le opportunità saranno ad appannaggio solo di quanti comprenderanno a fondo questo passaggio. Noi abbiamo avuto un grande cataclisma che però non si accompagna con un recupero di una dimensione trascendente. Questo è un qualcosa di estremamente importante non solo per i credenti, ma per tutti. La società ha subìto una perdita secca che potrebbe tradursi anche in una perdita di vitalità e di speranza, una contingenza che secondo me dovrebbe essere posta all’attenzione, in particolare, della Chiesa. Dovremmo chiederci se questa tendenza alla secolarizzazione debba essere in qualche modo assecondata, comprendendo al suo interno i nuovi spazi della fede, ovvero se contrastata. Credo che sia uno dei grandi dibattiti che questo tempo ci propone.

Chi ha subìto maggiori danni e quale il contributo della Chiesa nella ricostruzione sociale?

In primis le fasce deboli, gli anziani, non c’è dubbio. I giovani hanno subito un anno “in prospettiva”: erano già in una condizione difficile, visto che la generazione di oggi è la prima che non ha la certezza di poter usufruire del benessere della generazione precedente. Se ragioniamo in termini sociali sono questi i segmenti più danneggiati. Penso, in punta di piedi, che la Chiesa dovrebbe porsi sia il problema di intervenire sulle nuove fragilità, sia il problema di quale collocazione assumere all’interno di una dimensione di secolarizzazione inedita e anche accelerata. Ma non è tutto, penso ad un altro passaggio che deriva dalla pandemia.

Ovvero?

Quali effetti ha avuto sulle prospettive di sviluppo. Dal Covid credo che venga fuori anche una smentita a quel progetto egemonico di sviluppo che prevedeva un crescente accentramento delle dinamiche sociali, sia riguardo ai processi di urbanizzazione che riguardo alla gestione della sanità. Non dimentichiamo che lo sviluppo era inteso come vivere in metropoli sempre più grandi, gestiti da sistemi sanitari sempre più accentrati e da modalità di trasporto sempre più “omologanti”. Tutto ciò, alla luce di ciò che è accaduto, meriterebbe un ripensamento ma senza cadere nelle teorie di esaltazione del declino.

Quale la possibile via di uscita?

Avviare una riflessione di quel modello che investe anche la dimensione antropologica: è un esercizio dal quale non ci si dovrebbe sottrarre ed è uno dei motivi che sottende alla due giorni che terremo ad Anagni con la Fondazione Magna Carta. Mi riferisco, ad esempio, al fatto che siamo interessati da rapporti sociali caratterizzati dall’efficientismo: una persona va considerata fino a che è efficiente e forte, per poi essere parcheggiata in una Rsa. Una di quelle situazione che penso andrebbe profondamente ripensata. Così come si dovrebbe ripensare quell’idea di libertà individuale che sfocia in diritti per forza, come ci dimostra l’esempio dei no-vax, senza che si tenga conto del rapporto con gli altri. Loro in fondo sono il prodotto di quel tipo di cultura, che parte dalla considerazione di sé senza l’interazione con la comunità.

Lavoro e sviluppo sono chiamati a rialzarsi: oltre a numeri e progetti quanto conterà una buona dose di etica e di buon senso?

Lavoro e sviluppo credo non siano solo una questione di denaro, ma di visione che non può prescindere da una dimensione valoriale. Il primo passo va fatto nella direzione di comprendere quale società vogliamo e, da questa analisi sociale, riuscire ad attivare proposte puntuali, che portano più lavoro e miglior sviluppo.

@FDepalo


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