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Da Roma a Varsavia, la Giustizia secondo Bruxelles. Parla il commissario Reynders

Intervista al Commissario europeo alla Giustizia Didier Reynders: bene l’Italia con la riforma Cartabia, ora accelerare su assunzione dei giudici e digitalizzazione, no a una prescrizione troppo breve. A Polonia e Ungheria non faremo sconti, sui Trattati e i diritti umani non si scherza. In arrivo un’iniziativa della Commissione su imprese e golden power

L’Italia è tornata “sui giusti binari”. Didier Reynders promuove con riserva la riforma della Giustizia approvata dal governo Draghi. Intervistato da Formiche.net, il Commissario europeo alla Giustizia, reduce da una visita istituzionale a Roma dove ha incontrato, fra gli altri, la Guardasigilli Marta Cartabia e il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, traccia un bilancio di luci e ombre e annuncia i prossimi passi della Commissione, dalle regole per le imprese alle condizionalità sullo stato di diritto. E sullo scontro con Ungheria e Polonia garantisce: non faremo passi indietro.

Che giudizio dà la Commissione della riforma della Giustizia italiana?

È stato un processo impressionante. Un anno fa la Commissione ha espresso critiche sull’efficienza del sistema giudiziario italiano: i processi sono troppo lenti, servono più giudici e più investimenti nel digitale, e alcune riforme del processo civile e penale. Abbiamo visto importanti passi avanti, ora l’Italia non deve fermarsi. La ministra Cartabia ci ha assicurato non solo l’approvazione della riforma, ma anche un costante monitoraggio sulla sua applicazione uniforme.

Qual è uno dei punti critici?

La digitalizzazione del sistema giudiziario. Non a caso l’anno scorso la Commissione ha pubblicato una comunicazione sugli investimenti digitali nel settore, c’è un gap ancora molto grande fra gli Stati membri. L’Italia può e deve accelerare, non solo su questo fronte.

Dove ancora?

Il numero di giudici: ci attendiamo un aumento di assunzioni. Rispetto alla media europea il trend italiano è molto negativo.

Poi c’è la prescrizione. Il compromesso funziona?

So che è ancora un dibattito politicamente caldo, mi rendo conto che il governo deve trovare un consenso ampio. La Commissione si è già espressa a riguardo: l’Italia deve accelerare i procedimenti. Abbreviando sia i tempi per andare a processo, sia quelli fra primo grado e appello, che a volte si dilungano a dismisura. E garantendo tempi non troppo brevi per la prescrizione. Siamo inoltre particolarmente interessati alle nuove proposte sul non luogo a procedere.

Insomma, governo promosso, per ora.

I tempi sono il vero ostacolo. Per il momento l’Italia è sui giusti binari e ne siamo felici, non deve perdere il ritmo da qui alla fine dell’anno.

Dalla riforma dipende anche il piano di ripresa?

Gran parte dei fondi per la ripresa dipendono da un sistema giudiziario efficiente. Nelle nostre raccomandazioni specifiche per i Paesi membri nello scorso semestre abbiamo messo grande enfasi sulle riforme giudiziarie, i tempi dei processi civili e penali possono impattare la messa a terra dei fondi europei.

Da dove si parte?

Come ho detto, l’Italia deve usare una parte del Next generation Eu per digitalizzare il sistema giudiziario e amministrativo. Avere giudici indipendenti e processi efficienti non è solo un diritto dei cittadini, è anche un’esigenza del mondo imprenditoriale. Se l’Italia vuole attrarre investimenti esteri, chi investe deve essere sicuro che ci sarà un’applicazione uniforme delle leggi europee, e, se si deve andare a processo, che non duri dieci o quindici anni.

A Roma ha incontrato anche le imprese. Una richiesta ricorrente degli imprenditori italiani è un’applicazione uniforme e prevedibile della normativa sullo screening degli investimenti, il golden power. La Commissione ha suggerimenti?

Ancora una volta due sono le parole chiave: i tempi e la semplificazione. Le imprese, soprattutto quelle piccole e medie, ci chiedono un’applicazione uniforme delle leggi sugli aiuti di Stato e sugli investimenti, e regole più semplici. La Commissione renderà presto nota una nuova iniziativa sulla corporate governance, chiederà alle aziende di analizzare l’impatto e i rischi delle singole operazioni per la sicurezza delle supply chain, l’ambiente, il rispetto dei diritti umani, dall’abuso dei minori al lavoro forzato. Ovviamente, e questo è l’invito per tutti, bisogna fare differenze tra le grandi multinazionali e le piccole imprese, con cui bisogna agire più in fretta possibile.

Ancora sugli investimenti: la scorsa settimana ha annunciato nuove condizionalità che legano i fondi del Recovery al rispetto dello stato di diritto. Ci spiega come funziona?

La Commissione ha diversi strumenti a disposizione per far rispettare lo stato di diritto, la Corte europea è solo uno dei tanti. Siamo disposti ad avviare procedimenti di infrazione e ad andare di fronte alla Corte ogni volta che serva. E di fronte alla Corte in questi anni abbiamo avuto successo. Penso all’Ungheria, alla legge sulle Ong e le università, sull’asilo e i migranti, alle leggi sui minori discriminatorie per la comunità Lgbqt.

O alla Polonia…

Anche alla Polonia, certo, che ora è costretta a pagare una multa salata, un milione di euro al giorno, finché non sospenderà le disposizioni della normativa nazionale sulle materie di copmpetenza della Corte suprema. In altri casi la Commissione ha agito da sola. Come per sanzionare la decisione di alcune regioni, chiaramente discriminatoria, di istituire delle zone “libere” dalla comunità Lgbqt. Abbiamo permesso ad altre regioni di disapplicare queste leggi e cancellare la discriminazione.

Il dossier finirà sul tavolo del Consiglio europeo?

Siamo disposti ad andare fino in fondo. Per applicare le condizionalità sullo stato di diritto bisogna trovare una maggioranza qualificata, se necessario convinceremo gli Stati membri della necessità di sospendere alcuni fondi alla Polonia. Ci sarebbe un altro strumento, attivo dallo scorso giugno, cioè la Procura europea, ma hanno aderito solo ventidue Stati e fra questi non figurano Polonia e Ungheria.

Reynders, la Polonia accusa la Corte Ue di doppiopesismo. La tesi è questa: quando la Corte costituzionale tedesca ha bloccato il Recovery fund europeo non c’è stato tanto clamore. È così?

Non ci sono state differenze. Anche alla Germania abbiamo chiesto di spiegare la decisione della corte, e lo stesso abbiamo fatto con la Romania. È la procedura ogni volta che la primazia delle leggi europee su quelle nazionali, principio cardine dell’Ue, viene messa in discussione. Il caso polacco però ha qualcosa di eccezionale.

Cosa?

Per la prima volta sono gli stessi Trattati ad essere messi in discussione. La Corte ha dichiarato che la Costituzione polacca è superiore non alle leggi o alle decisioni degli organismi europei, ma ai trattati dell’Ue. E lo ha fatto su richiesta formale e specifica del primo ministro Mateusz Morawiecki. Una decisione presa da una corte sulla cui indipendenza dal governo nutriamo forti dubbi, così come li nutre la Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. Non è un caso isolato, è un sistema.

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