Skip to main content

Niente semipresidenzialismo di fatto. Al massimo sporadiche supplenze del Colle

Il caso della mancata riforma della giustizia, citata all’inizio del suo mandato dal penultimo inquilino del Quirinale, dimostra che l’influenza del Colle è sporadica e contingente

Considero l’espressione “semipresidenzialismo di fatto”, applicata all’Italia da Massimo Cacciari e da altri prestigiosi intellettuali degli ultimi 30 anni, un errore storico clamoroso.

Non parlo per sentito dire. Tra il 1993 e il 1997 ho collaborato dall’esterno a importanti eventi a New York promossi dalla rappresentanza d’Italia alle Nazioni Unite, a cui parteciparono gli allora ministri degli Esteri Lamberto Dini Susanna Agnelli, Livio Caputo, l’allora sindaco di Firenze Mario Primicerio, il cardinale Renato Raffaele Martino, e una volta, al Winter Garden, persino Armando Cossutta in occasione del suo primo viaggio negli Stati Uniti.

Ho ricordato questi momenti del primo periodo della presidenza di Oscar Luigi Scalfaro perché si trovò ad affrontare una situazione difficilissima: le stragi di mafia, Mani pulite, la crisi della lira e una fase di turbolenza politica che non aveva precedenti nella storia della Repubblica. Non c’è dubbio che in quella fase così complicata Scalfaro si sia trovato nelle condizioni di dover supplire come meglio poteva alle difficoltà e soprattutto ai vuoti della politica.

Ma la parola giusta da usare è supplenza. Non c’entra niente il semipresidenzialismo di fatto. Il Colle ha avuto certamente un peso su singole vicende importanti, ma sempre specifiche e contingenti.

Ho citato all’inizio la rappresentanza d’Italia alle Nazioni Unite perché in quel momento alla Farnesina c’era una corrente di pensiero che guardava giustamente a Berlino in vista dell’euro. Ma, sbagliando, voleva concedere troppo alla Germania: era, infatti, favorevole all’ingresso immediato della Germania e del Giappone nel Consiglio di Sicurezza. In quel caso, prima Silvio Berlusconi e successivamente Romano Prodi, con la forte  benedizione del Quirinale, confermarono la posizione ufficiale italiana. L’Italia riuscì a bloccare il cosiddetto “quick fix” all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, aprendo così la prospettiva di un seggio per l’Unione europea e l’Unione africana all’interno della riforma del Consiglio di Sicurezza, prospettiva di riforma purtroppo sinora inattuata.

In un caso come questo l’influenza del Quirinale è stata a mio avviso un dato molto rilevante e positivo, senza minimamente superare le prerogative costituzionali del presidente della Repubblica.

Potrei aggiungere altri momenti di supplenza della presidenza Scalfaro, ma mi limito a citare un altro caso che riguarda, invece, la presidenza di Giorgio Napolitano. Chi ha seguito le vicende politiche della Prima Repubblica si ricorda certamente quanto Napolitano (e il gruppo delle persone a lui più vicine –  anch’io mi onoro di averne fatto per oltre un decennio) abbia contribuito, da una posizione di minoranza,  affinché nel Pci si potessero legittimare le parole “riformismo” e “socialdemocrazia”, prima impronunciabili.

La grande stima per Napolitano e il forte attaccamento alla mia esperienza migliorista – pur con le sue luci e l’ombre – mi impedisce di analizzare con il necessario distacco il ruolo di Napolitano al Quirinale. Non voglio essere accusato di piaggeria e mi limito a ricordare un episodio. Il presidente Napolitano nel giugno del 2006, in occasione del suo primo intervento al Csm, pose con grande energia il tema della inammissibile lunghezza dei processi. Un chiaro messaggio di natura politica che nessuno si permetterebbe etichettare come interferenza indebita e non solo per il ruolo di presidente del Csm stesso. Bene, da allora sono passati 15 anni e in questo lungo periodo non è successo assolutamente niente. Anzi, è dovuta intervenire più volte pesantemente l’Unione europea per mettere in mora l’Italia sulla riforma della giustizia.

Ho fatto questi due esempi sul Quirinale perché non voglio negare una qualche influenza del Colle sulla politica (è verosimile che in alcuni casi Scalfaro e Napolitano abbiano anche influenzato la nomina o meno di alcuni ministri). Tuttavia, ricordo ai lettori di Formiche.net che il presidente Scalfaro è stato al Quirinale 7 anni e Giorgio Napolitano addirittura 9.

Il caso della mancata riforma della giustizia è eclatante, tra i tanti esempi possibili, e dimostra che l’influenza del Colle è sporadica e contingente.

In un contesto come questo parlare di semipresidenzialismo di fatto è un segno di ignoranza. Infatti, questo sarebbe stato tutt’altra cosa: una costante e incisiva capacità di governare le grande scelte del Paese nel breve e medio termine.

In Italia questo ruolo lo possono svolgere – se e quando ci riescono – solo tre soggetti ben coordinati: il presidente del Consiglio, il governo e last but not least la maggioranza parlamentare. Per inciso, il ruolo del Presidente del Consiglio andrebbe un po’ rafforzato, ma questo è un altro discorso.

Chi vuole Mario Draghi al Quirinale deve sapere che per quanto la sua figura possa essere autorevole dal Colle si può sorvegliare e per aspetti limitati influenzare, ma non c’è modo di decidere, governare e fare le riforme di cui l’Italia ha un disperato bisogno.

C’è chi candida Draghi a presidente della Repubblica in buona fede. Altri in cattiva fede. Vedremo, ma chi lo vuole in nome del semipresidenzialismo è decisamente fuori strada.

Per questo mettendomi per un attimo nei panni di Enrico Letta prenderei una posizione netta: errare humanum est, perseverare autem diabolicum. Traduco il mio messaggio perché è troppo politichese. Se dovessero crearsi le condizioni favorevoli, non ripeterei mai l’imperdonabile errore fatto da Achille Occhetto nel 1994. Se avesse candidato Carlo Azeglio Ciampi come presidente del Consiglio forse il centrodestra non avrebbe vinto. A buon intenditor poche parole.

×

Iscriviti alla newsletter