Sta per essere presentata formalmente la prima bozza di Strategic Compass dell’Unione europea. Chi chiedeva “autonomia strategica” rimarrà deluso, anche se emerge un documento qualificante per l’Unione. La bussola segna la direzione giusta, anche nel rapporto con la Nato, ma ora serve volontà politica. L’analisi di Stefano Stefanini, senior advisor dell’Ispi, già consigliere diplomatico del Presidente della Repubblica e rappresentante permanente dell’Italia all’Alleanza Atlantica
Joe Biden l’ha caldamente raccomandata nel blitz europeo fra Roma e Glasgow. La Difesa europea trova ora la sua bussola. La fornisce lo Strategic Compass, con cui l’Ue si candida a un ruolo nettamente accessorio nella sicurezza europea, ma comunque non trascurabile e, soprattutto, realizzabile in tempi ragionevoli. Chi chiedeva “autonomia strategica” rimarrà deluso; l’autonomia resta anni luce distante anche con la nuova bussola. Sarebbe meglio non parlarne più. Chi, su entrambe le sponde dell’Atlantico, vorrebbe una più equilibrata divisione di responsabilità per la difesa fra europei e americani, trova invece un punto di partenza.
Il documento viene alla luce dopo un esercizio durato circa due anni. Non è definivo. Dovrà essere approvato dagli Stati nella prima metà del 2022, sotto presidenza francese che, prevedibilmente, ne farà un cavallo di battaglia. Ma, per quanto Emmanuel Macron possa cercare di valorizzarlo come rinnovato impegno dell’Unione per difesa e sicurezza, proprio lo Strategic Compass rivela i limiti di questa difesa europea. E questo è forse il suo maggior pregio. Traccia un quadro realistico del possibile ruolo dell’Ue nella sicurezza europea quanto a capacità di cui dotarsi, missioni da intraprendere e cooperazione con altre organizzazioni internazionali, a partire dalla Nato.
Rovesciando l’ordine, è chiaro che l’Ue si colloca in una funzione integrativa dell’esistente architettura. Solo la Nato può continuare a credibilmente difendere l’Europa. Se l’Alleanza ha l’encefalogramma piatto, non è l’Ue che possa, o voglia, sostituirvisi. L’Unione aspira a un livello privilegiato di interazione e divisione di compiti con l’Alleanza (che ricambierà il messaggio nel nuovo concetto strategico) ma non a prenderne il posto. L’annoso dibattito su una concorrenza che è sempre stata solo teorica può essere definitivamente archiviato.
La nuova bussola ritaglia e rafforza il profilo operativo dell’Ue che si traduce, da più di un ventennio, in missioni militari di medie dimensioni quasi esclusivamente nell’area Mediterraneo-Africa. Questa non è una novità, ma con lo Stategic Compass diventa definitivamente il contributo che l’Ue può offrire all’architettura complessiva e il ruolo a cui si candida come interlocutore di riferimento per la sicurezza di un “vicinato” interpretato estensivamente. L’Africa è grande.
Ma l’Ue ne ha, o ne avrà, la capacità? Il nodo viene al pettine nella proposta qualificante della Bussola: una “entry force” europea, permanentemente pronta e disponibile, di cinque o seimila unità. Qualificante per due motivi: è un salto di qualità in quanto capacità operativa di cui l’Ue al momento non dispone (garantisce come minimo una facoltà di reazione molto più rapida ed efficace); al tempo stesso, segna la soglia delle operazioni che, al momento, possono essere intraprese con questa nuova capacità. È pertanto importante che l’Ue se ne doti, al più presto, senza illudersi su quanto sia possibile fare con questa forza. Per intenderci, parliamo di un dispositivo equivalente a quello spiegato dagli americani per la protezione dell’aeroporto di Kabul durante l’evacuazione di agosto.
Dopo questo primo passo nella direzione giusta, l’Ue dovrà domandarsi due cose. Primo, a che potenziali crisi la Difesa europea voglia essere in grado di far fronte. Secondo, quali capacità sarebbero necessarie. Guardando la carta geografica e geopolitica, la risposta alla prima domanda dovrebbe essere la minaccia che emerge da focolai regionali in Africa, e le operazioni francesi in Mali sono un buon esempio. Se l’Ue fosse in grado di assumersi la responsabilità primaria della stabilizzazione del Sahel, verrebbe ampiamente incontro alla richiesta americana di bilanciamento del reciproco impegno per la sicurezza comune. A Washington oggi serve più che gli europei si occupino del loro vicinato, sollevandoli dai relativi oneri, che non vedere qualche portaerei battente loro bandiere affacciarsi nel Mar Cinese meridionale per poi rientrare nei porti d’origine. Il valore politico del messaggio alla Cina non va sottovalutato, ma sul piano strategico-militare gli europei contano per quanto mettono sul tavolo dello scacchiere atlantico-mediterraneo. La Difesa europea si colloca in questo contesto di ripartizione di responsabilità, che deve coinvolgere anche il Regno Unito.
Se l’obiettivo strategico dell’Ue è, figurativamente, il Sahel o una sfida equivalente, non basta certo una “entry force” di cinque o seimila unità, pur con tutti gli “enablers” di logistica e capacità accessorie descritte dal generale Claudio Graziano nella sua recente audizione in Parlamento. Ma è un primo passo per dotarsi di capacità essenziali. La bussola strategica segnerà la direzione giusta; arrivare alla meta è ora questione di volontà politica