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Terrorismo e bunker cinese. Perché l’intelligence Usa va a Mosca

A Washington la chiamano “sindrome bunker”. La Cina di Xi ripiega su se stessa, sospende i canali diplomatici e di intelligence, come dimostra il caso dei missili supersonici. Ecco perché gli 007 americani intensificano i contatti con i russi. Obiettivo: sciogliere i pochi nodi scioglibili. A partire dall’emergenza numero 1: il terrorismo

Un ponte delle spie, sempre aperto. Stati Uniti e Russia si cercano, si parlano, si incontrano. C’è un motivo dietro l’infittirsi dei rapporti diplomatici e di intelligence fra Washington e Mosca.

Un allarme, anzi due. Il primo è il più urgente: la presa dell’Afghanistan da parte dei Talebani e la spirale di instabilità cui ha dato vita in Asia centrale e Medio Oriente hanno esponenzialmente alzato il livello d’allerta per un attacco terroristico internazionale. L’antiterrorismo è uno dei pochi fronti su cui gli 007 russi e americani collaborano di continuo.

Solo due anni fa Vladimir Putin in persona ha ringraziato pubblicamente l’allora presidente Donald Trump per un warning della Cia che ha sventato un attacco terroristico a San Pietroburgo. Due anni dopo il rigoglio di decine di organizzazioni terroristiche tra Pakistan e Afghanistan, da Al-Qaeda all’Isis del Khorasan, suona un nuovo campanello d’allarme.

Questi i dossier al centro di un viaggio a Mosca del direttore della Cia William Burns, accompagnato dalla sottosegretaria di Stato Karen Donfried. Burns, diplomatico rodato, ex ambasciatore in Russia, ha avuto un faccia a faccia con due figure chiave dell’intelligence russa: Nikolai Patrushev, segretario del Consiglio per la sicurezza russa, ex capo delle spie dell’FSB, e Sergey Naryshkin, capo del Servizio segreto estero del Cremlino, l’Svr.

“Il focus è stato sull’interazione inter-dipartimentale nel contesto delle relazioni russo-americane, con un’enfasi sulla lotta al terrorismo internazionale”, si legge in un comunicato degli 007 russi. L’allarme del terrorismo fondamentalista è altissimo a Mosca: di recente Patrushev ha incontrato il suo omologo in India proprio sull’emergenza afgana e altri colloqui sul contrasto al terrorismo sono in programma con le repubbliche ex sovietiche riunite sotto il Trattato di Sicurezza collettiva (Csto: Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan), ha confermato mercoledì il governo russo.

Non è da meno l’allerta negli Stati Uniti: in un’audizione al Senato, la sottosegretaria alla Difesa Colin Kahl ha detto che il Pentagono è “certo” che nei prossimi sei mesi i gruppi terroristici in Afghanistan lanceranno un attacco terroristico contro “un target internazionale”. Al centro del via vai di spie e diplomatici americani e russi c’è anche la minaccia cibernetica e la richiesta, confermata da Joe Biden a Putin nel bilaterale a Ginevra di giugno, di consegnare alla giustizia gli hacker che attaccano gli Stati Uniti dal suolo russo.

Diversamente dalla caccia ai terroristi, qui le due parti “concordano di non concordare”. Dopo un anno di continua escalation che ha visto tremare gli apparati di sicurezza americani con le aggressioni alle aziende di software Solar Winds e Kaseya, entrambe attribuite dall’intelligence statunitense ai Servizi russi, i progressi sono limitati. Questo nonostante le continue trasferte di alti ufficiali americani a Mosca, fra cui, a ottobre, quelle di Anne Neuberger, vice-consigliera per la sicurezza nazionale americana con delega al Cyber e alle tecnologie emergenti, e della sottosegretaria di Stato Victoria Nuland.

Terrorismo e cyber-crimine, però, non sono le sole ragioni che spiegano l’intensificarsi dei contatti tra la Casa Bianca e il Cremlino. Una de-escalation, piaccia o meno, è ritenuta necessaria dall’intelligence Usa alla luce di un fenomeno nuovo, e preoccupante. E cioè quello che vede la Cina di Xi Jinping ripiegare su se stessa e chiudersi al mondo esterno. A Washington, negli ambienti diplomatici, viene chiamata “sindrome bunker”. Le comunicazioni di routine con l’intelligence cinese si sono rarefatte negli ultimi mesi, con il rischio di un aumento esponenziale di incidenti.

La prova plastica di questa “chiusura” cinese ritenuta pericolosa dagli 007 americani è la scoperta, tardiva, di due lanci di missili supersonici in grado di portare testate nucleari da parte del governo cinese, a luglio e agosto. Il protocollo, in questi casi, ha notato il Financial Times che per primo ne ha dato notizia, prevede un “warning” all’intelligence di potenze straniere, di cui non si è vista traccia. A questo si aggiunge l’allarme, lanciato nell’ultimo rapporto del Pentagono, di un arsenale da mille testate nucleari di cui Pechino potrebbe disporre da qui a dieci anni.

Sono segnali che indicano un’escalation, e l’intermittenza dei canali di comunicazione con il governo cinese inizia a preoccupare Washington. Di qui la scelta di parlare con un altro rivale storico, la Russia, e sciogliere almeno i nodi scioglibili. Incontrandosi su “un ponte delle spie” che conoscono e tengono aperto da lungo tempo.

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