I ministri per l’innovazione digitale hanno dato il via libera ai testi di Dma e Dsa. La novità rispetto alla versione originale riguarda chi vestirà l’uniforme del guardiano: l’intenzione è di centralizzare i controlli in seno alla Commissione europea. Una mossa che Rustichelli, presidente dell’Antitrust italiano, considera un grave errore
L’Unione europea compie un ulteriore passo sul digitale e prova a imbrigliare le Big Tech. I ministri dell’innovazione, riuniti a Bruxelles nel Consiglio sulla competitività, hanno approvato i contenuti del Digital Markets Act (Dma) e Digital Services Act (Dsa) in tema di concorrenza digitale e regolamentazione dei contenuti presenti sulle piattaforme tech. L’obiettivo ultimo dell’Ue è quello di porre un limite alle attività illegali, che siano esse le pratiche anticoncorrenziali – portate avanti soprattutto dalle grandi aziende – o i materiali con contenuti sensibili, come la pedopornografia o gli atti di violenza. La palla passa quindi al Consiglio e al Parlamento europeo, chiamati a redigere i testi che saranno sottoposti all’approvazione finale nel 2022.
“Oggi è un giorno molto importante, quasi storico”, ha dichiarato il ministro del Digitale francese, Cédric O ancor prima che si riunisse il gruppo, definendo il Dma e il Dsa i due regolamenti “potenzialmente più importanti nella storia della regolamentazione digitale”. Per la Francia la questione è prioritaria non solamente in ambito europeo ma anche nazionale. A gennaio, la presidenza del Consiglio europeo passerà nelle mani di Parigi e per il presidente Emmanuel Macron esserne alla guida nel momento della conclusione degli accordi è un’ottima vetrina in vista delle presidenziali di aprile. Un mese, tra l’altro, in cui l’intesa potrebbe essere già raggiunta, dato che l’adozione è prevista entro i primi sei mesi del prossimo anno.
L’approvazione, però, non combacerà con l’effettiva entrata in vigore. Inizialmente era stato previsto un periodo ponte di tre mesi, durante cui le aziende avrebbero dovuto adeguarsi alle nuove regole. Il periodo è stato allungato di un anno e mezzo e così, qualora dovessero essere rispettati i tempi di adozione, la regolamentazione entrerà in vigore non prima del 2024. Un modo, forse, per evitare che le aziende si possano appigliare al poco preavviso per modernizzarsi.
A essere interessate dalle due normative sono tutte le aziende, con una particolare attenzione rivolta alle Big Tech. I rappresentanti degli Stati membri dell’Ue hanno concordato sulla proposta iniziale della commissaria Margrethe Vestager, a cui hanno aggiunto ulteriori regole. Nel caso del Dsa le grandi società, infatti, dovranno dichiarare pubblicamente quanti membri del personale sono addetti alla moderazione dei contenuti online e quali lingue parlano. Probabilmente, quest’ultima è una necessità dovuta al fatto che i materiali illegali provengono per lo più da Paesi dove l’inglese è poco diffuso e quindi i contenuti sono più difficili da decifrare.
Un caso eloquente e di stretta attualità riguarda il ruolo (indiretto) che i social network hanno giocato nella crisi migratoria tra Bielorussia e Polonia, con molti migranti che sono stati incoraggiati a mettersi in cammino da notizie false diffuse da alcuni iscritti.
Non a caso, verrà estesa alle aziende di cloud la possibilità di denunciare alle forze dell’ordine un possibile reato riscontrato sulle piattaforme. Una regola che già vale per le aziende tech e che sarà rafforzata ulteriormente. Inoltre, queste dovranno vietare i cosiddetti modelli oscuri, strumenti che portano l’utente a dare il proprio consenso per ricevere notizie o consigli personalizzati in base alle preferenze individuali.
La volontà dietro la regolamentazione, quindi, non è solamente quella di punire chi sbaglia – per cui sono previste multe che arrivano fino al 10% dei ricavi globali – ma anche quella di responsabilizzare le aziende e di includerle nel processo. Una collaborazione tra società e istituzioni per aumentare la sicurezza degli utenti che navigano sul web.
Per quanto riguarda il Dma, invece, l’idea è quella di colpire le grandi aziende (in particolare) della Silicon Valley, definite gatekeeper. Con le nuove regole sulla concorrenza, alle società sarebbe vietato utilizzare i dati personali provenienti da fonti differenti e raggruppare servizi digitali. Per di più, agli utenti sarà consentito di eliminare qualsiasi app, anche quelle già installate sui dispositivi e che al momento non è possibile cancellare.
La novità rispetto al testo primario riguarda chi vestirà l’uniforme del guardiano per controllare che nessuno infranga le regole. L’intenzione è di rendere la Commissione europea l’unica autorizzata a riscontrare eventuali illeciti. E quindi non, per fare l’esempio di uno Stato dell’Ue in cui si trovano molte delle più grandi aziende tech, non i regolatori irlandesi, finora molto attivi. Il potere di vigilanza, quindi, sarebbe molto più centralizzato rispetto ad oggi. L’Antitrust italiano, nella relazione annuale del presidente Rustichelli, considera questa mossa un grave errore.
A dover essere sciolto è il nodo riguardante il numero delle aziende che rientrerebbero nei nuovi parametri. La Commissione europea per la concorrenza preferirebbe tutte quelle con un fatturato annuo di 6,5 miliardi di euro nell’ultimo triennio, con una capitalizzazione di mercato non inferiore ai 65 miliardi di euro. A drizzare le orecchie, dunque, sono proprio le Big Tech, anche perché l’altro criterio riguarda il numero di iscritti: per essere considerati dei gatekeeper, infatti, l’azienda dovrà dimostrare di avere 45 milioni di utenti nell’Ue al mese 10 mila dipendenti nella zona euro.
Un’ulteriore conferma di come questa legislazione sia voluta, in primis, per contenere le grandi aziende. Una necessità richiesta a gran voce da Francia ma soprattutto dalla Germania, con l’eurodeputato Andreas Schwab in prima linea per indirizzare il Dma verso questo tipo di società, che al momento ammonterebbero a non più di undici o dodici.
Proprio qua, però, sorge il problema principale dell’intera questione. Se le due nazioni leader europee sono contente del modo di procedere, a storcere fortemente il naso è Washington. Quello di cui si lamenta l’amministrazione di Joe Biden – e non solo, viste le proteste dei repubblicani – è l’aver pianificato dei criteri che, gioco forza, vadano a sfavorire le sole grandi aziende statunitensi. Soprattutto, quello che proprio non va giù ai funzionari statunitensi è l’esser paragonati alle aziende cinesi, con il rischio che ognuno prenda la propria strada senza cooperare su un tema di estrema importanza come il digitale.
In attesa dell’obiettivo finale, il passo più complicato sarà convincere gli Stati Uniti che questa sia la strada giusta da seguire.