L’Associazione italiana nucleare ha promosso una conferenza per rilanciare un discorso serio, tecnologicamente neutro e realistico sull’energia nucleare. Un occhio sulla transizione energetica, irrealizzabile senza l’atomo, l’altro sulla filiera italiana che nonostante l’assoluta mancanza di sostegno pubblico vive e compete all’estero
“Non siamo noi a riparlare di nucleare, è la realtà a farlo”. Questa la battuta d’esordio di Umberto Minopoli, presidente dell’Associazione Italiana Nucleare (Ain), che ha aperto i lavori della conferenza promossa dal suo ente e intitolata, senza giri di parole, “Il nucleare decisivo per la transizione energetica”. Compito della nutrita schiera di relatori è stato dare sostanza a questa tesi, quanto mai attuale con l’inclusione quasi scontata dell’energia dell’atomo nella tassonomia europea per gli investimenti verdi.
I detrattori italiani del nucleare sono ricomparsi per criticare la mossa di Bruxelles, prevista a giorni, pensata per agevolare i finanziamenti privati per le tecnologie che possono supportare o sono in linea con il processo di transizione ecologica. Per un’ala degli ambientalisti la mossa sottrae fondi e attenzione all’unica risposta possibile, le rinnovabili.
Tuttavia, come ha spiegato Minopoli, i numeri e le autorità scientifiche – tra cui gli scienziati Onu raccolti dall’Ipcc e l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) – illustrano come “serva un ricorso massiccio al nucleare” (nello specifico, almeno il raddoppio della capacità odierna) per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione. “Ma chiariamoci: non esiste una competizione per le risorse pubbliche tra nucleare e rinnovabili”, ha spiegato l’esperto.
“Noi non siamo qui per far partire un programma di centrali nucleari in Italia domattina. Ma dobbiamo decidere se stare fuori dalla ricerca nel settore e i suoi sviluppi commerciali”. Qui il nocciolo della posizione dell’Ain: sorpassare la chiusura ideologica per cui l’atomo è stato completamente escluso dai fondi di ricerca e sostegno a imprese e attività, inclusi quelli del Pnrr.
Oggi la tecnologia nucleare è già largamente impiegata in Italia, a partire dal 10% di elettricità che importiamo dalla nuclearissima Francia. Serve anche per produrre i radioisotopi a uso medico, impiegati sempre più pervasivamente nella diagnostica e nella terapia. Al contempo esiste una filiera industriale vivissima e competente che gravita perlopiù attorno alla fornitura di componentistica del maxi-progetto internazionale Iter, il prototipo di reattore a fusione su cui Cina, India, Usa, Russia, Giappone, Corea del Sud e Ue (Italia inclusa) scommettono. Il premio è lauto: energia pulita e sostenibile praticamente illimitata. Ma non mancano aziende italiane come Eni impegnate in altri progetti.
Naturalmente Iter e i progetti più piccoli non saranno pronti in tempo per ribaltare le sorti della transizione, un altro chiodo fisso dei detrattori. Ma l’umanità combatterà con il cambiamento climatico per l’intero secolo almeno, e la ricerca deve pur iniziare perché produca risultati. Peraltro le tecnologie nucleari di prossima generazione (tra cui spiccano reattori Smr e fusione) servono anche alle rinnovabili: la fornitura costante di elettricità a impatto zero può bilanciare l’intermittenza di eolico e solare e sostenere i processi virtuosi ma energivori, dalla produzione di idrogeno verde mediante elettrolisi a quella dell’acciaio verde coi forni elettrici.
Difficile parlare di tutto questo se di nucleare in Italia sembra non si possa parlare affatto – una frustrazione condivisa da diversi oratori. Ma una parte della politica si sta mostrando sempre più sensibile a queste e altre ragioni. Ricordando la stangata del caro-bollette, la sottosegretaria al ministero della Transizione ecologica Vannia Gava ha sostenuto la necessità “di avere la libertà di ragionare di un argomento scientifico che investe le politiche energetiche e mondiali, senza paura e senza essere attaccati”. Anche perché l’Italia “non può esimersi dalla ricerca” che procede in seno all’Europa.
Sullo stesso solco le parole di Vincenzo Amendola, sottosegretario di Stato con delega agli affari europei, intervenuto via videomessaggio. “Tutti i sistemi produttivi sono orientati a fare le scelte migliori nel mix energetico”, ha detto commentando la questione tassonomia; “per noi è anche il modo per aprire un dibattito pubblico perché faremo scelte che trasformeranno l’economia italiana ed europea e toccheranno tutti gli ambiti della società”. L’Ue, ha continuato Amendola, ha già avviato ricerche nel settore sotto l’egida di Horizon Europe (Euratom, lo stesso Iter…) ma “servono anche alleanze” tra industrie e i grandi partner.
Il comune denominatore di tutti i discorsi è lo stesso: serve promuovere la ricerca, accademica e industriale, e sostenere le attività italiane che operano in un settore così innovativo e utile al futuro. In chiusura al suo discorso introduttivo Minopoli ha ricordato la legge di settore che tra gli anni ’60 e ’70 ha permesso la nascita della filiera italiana aerospaziale, oggi tra le punte di eccellenza del Paese e ultracompetitiva a livello mondiale. “Sulle tecnologie della transizione, a mio avviso, servirebbe uno strumento analogo: una legge di settore rivolta a tutte le tecnologie no-carbon necessarie da sviluppare che aiuti imprese, enti, università a investire in queste realtà tecnologiche. Indipendentemente dalle scelte di localizzazione di impianti che farà il nostro Paese”.