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Non lasciar radicare le attese di più alta inflazione. I consigli del prof. Zecchini

È sul piano delle prospettive d’inflazione che si coglie la più importante distinzione tra la politica della Fed e quella della Bce. L’analisi di Salvatore Zecchini

Col passare dei mesi crescono i dubbi sulla tesi secondo cui l’inflazione insolitamente elevata, che si registra da metà d’anno, abbia il carattere di una temporanea fiammata dovuta a fattori contingenti, destinati a esaurirsi in breve. La più rinomata banca centrale al mondo, la Fed, per bocca del suo presidente non vi crede più e lo ha fatto capire nel suo discorso di metà dicembre, quando ha affermato che il rialzo dei prezzi molto oltre l’obiettivo si è esteso a tutti i settori dell’economia, che continuerà nel prossimo anno, che i salari sono saliti sensibilmente e ancor più importante, che la Fed è impegnata a impedire che questa inflazione prenda radici nell’economia.

Sull’altra sponda dell’Atlantico, la Bce insiste invece sulla temporaneità del fenomeno, attribuendolo a due fattori: il rialzo dei prezzi dell’energia e l’eccesso di domanda di beni e servizi rispetto alla capacità dell’offerta di soddisfarla a causa di intoppi nelle forniture degli input materiali (materie prime e prodotti intermedi). Entrambi i fattori sono, tuttavia, presenti nelle due aree economiche, ma la ripresa della produzione e della domanda dopo la recessione risulta più intensa e rapida oltreoceano che in Europa.

In realtà, la crescita del Pil negli Usa è stimata quest’anno al 5,5% con un’inflazione media (al consumo) al 5,3-5,4% e una al 4,4% al netto di energia ed alimentari, mentre nell’area Euro la crescita sarebbe al 5% e l’inflazione al 2,6% e 1,4% rispettivamente. Considerando anche l’orizzonte a cui si guarda per definire l’orientamento delle politiche monetarie, si stima che nel prossimo triennio la crescita nell’eurozona sia superiore a quella americana con un’inflazione comparativamente più bassa, pur registrando in entrambe le economie un rallentamento dei due andamenti a confronto. In altri termini, in Europa si realizzerebbe una combinazione più “virtuosa” tra espansione economica ed inflazione rispetto all’America.

Queste differenze di proiezioni non sono il prodotto di un divergente orientamento delle politiche macroeconomiche durante e dopo la recessione, ma di altri fattori. Le due aree economiche differiscono in molti aspetti, particolarmente nella capacità di rispondere a shock straordinari, nella resilienza e flessibilità di aggiustamento e nella combinazione tra le misure monetarie e quelle di bilancio.

L’economia americana si è ripresa in anticipo rispetto a quella europea da una recessione che è stata più contenuta, ed attualmente si trova in una fase economica più avanzata. Anche nell’uscita dalla crisi ha mostrato una migliore capacità di reazione alle restrizioni per il contrasto alla pandemia, più flessibilità delle autorità nel riorientare le loro politiche e più prontezza nel rinnovamento ed innovazione tra le imprese. A questi fattori si è aggiunta una diversa consistenza dell’espansione monetaria e della spesa pubblica in disavanzo diretta a contrastare gli effetti della pandemia. L’immissione di liquidità nel sistema attraverso il quantitative easing, ovvero l’acquisto di titoli pubblici, si è rivelato più consistente negli USA con un aumento del bilancio della Fed di $4,17 trilioni, corrispondenti a un +210%, rispetto all’area dell’euro, in cui il bilancio della BCE è aumentato di €3,9 trilioni (+185%) tra il 2019 e dicembre 2021.

I tassi d’interesse delle due banche centrali sono, invece, risultati sostanzialmente allineati, con le operazioni di prestito a tassi tra zero e 0,25% in entrambe e tassi negativi sui depositi solo presso la Bce. Analogamente all’immissione di liquidità, dal lato della politica di bilancio, la dilatazione del deficit è stata più ampia nel bilancio federale americano, in cui è aumentato di oltre 10 punti percentuali in rapporto al PIL, passando dal 4,6% del 2019 al 15% nel 2020 (ovvero $3,1 trilioni) per scendere al 12,4% nel 2021 (€2,8 trilioni). Nell’eurozona, invece, l’espansione del deficit è stata di 6,6 punti dal 2019 al 2020, con una spesa pubblica che ha raggiunto il 53,8% del PIL.

Qualche differenza anche nella composizione della spesa, in quanto il governo federale ha impiegato più risorse per la protezione sociale e per la ricerca, mentre i membri dell’UE si sono impegnati non solo nell’attutire i costi sociali della recessione ma nel varo di un grande programma di aiuti e finanziamenti per sviluppare le infrastrutture, la digitalizzazione e la transizione ecologica.

È piuttosto sul piano delle prospettive d’inflazione che si coglie la più importante distinzione tra la politica della Fed e quella della Bce. La prima prende atto del robusto andamento della crescita e del notevole miglioramento dell’occupazione per affermare l’uscita dal programma di acquisto di titoli pubblici entro il prossimo marzo e lascia intravedere nel resto del 2022 rialzi del tasso chiave sotto il suo controllo.

Quello sui “Fondi Federali”, nelle proiezioni ufficiali passerebbe da 0,1% del 2021 a 0,6-0,9% nel 2022 e salirebbe all’1,9 e 2,9% nel biennio successivo.

La Bce, in contrasto, conferma l’atteggiamento accomodante della sua politica alla luce della ripresa economica non ancora arrivata a compimento e del mancato raggiungimento del suo obiettivo d’inflazione al 2% nel medio periodo. È disposta, quindi, a tollerare che il rialzo dei prezzi continui nei prossimi mesi a restare sopra il 2%, avendo fiducia che i due fattori principali che la sospingono, ovvero i rincari di energia, materie prime ed alimentari, nonché l’eccesso di domanda, si esauriranno nel 2022 e il ritmo inflattivo torni in linea con l’obiettivo di medio termine. Enfatizza, inoltre, il suo atteggiamento di grande flessibilità nel condurre la sua politica di accomodamento.

Con lo scadere del programma di finanziamento per l’emergenza pandemica a marzo prossimo, continuerà con gli acquisti di titoli previsto dal programma APP e non alzerà il costo del denaro fin quando non riterrà che la dinamica dei prezzi nel medio periodo si sia stabilizzata al 2% annuo.
La dichiarazione di un atteggiamento monetario così accomodante almeno per tutto il 2022 solleva due interrogativi: uno tecnico, su come viene misurato il medio termine, e l’altro, su quale altra considerazione motiva questo prolungare l’immissione di liquidità pur a fronte di un’eventuale persistenza di un’inflazione molto oltre l’obiettivo nei prossimi 12 mesi.

Sulla questione su come definire il medio termine, la Bce non ritiene di poter fissare un dato quantitativo perché non è possibile raggiungere e mantenere quel ritmo nel breve periodo, in quanto comporterebbe eccessive reazioni a spese della produzione e dell’occupazione. Solo su tempi più lunghi ma indefinibili ex ante si può raggiungere la meta senza produrre danni. In particolare, nell’ultima conferenza stampa il presidente della BCE fa presente che l’inflazione di fondo si colloca ancora a 1,4% nell’anno, e secondo le proiezioni sarebbe a 1,9% il prossimo e in discesa nel biennio seguente. Quella che conta, tuttavia, è l’inflazione effettiva a cui sono esposte imprese e famiglie, e non quella di fondo.

Sulla seconda questione getta luce una ricerca della stessa Bce ad opera di J. Maih e altri tre economisti, pubblicata nel settembre scorso. Sulla base di una complessa analisi econometrica per costruire scenari controfattuali e regole di condotta ottimali, si mostra che fino al 2014 la Bce ha reagito con più forza (ovvero con più rigore) quando l’inflazione superava il 2%, rispetto a quanto ha fatto quando era inferiore, ossia allentando i freni monetari. Se questa asimmetria fosse stata applicata nell’ultimo ventennio anche nel caso di inflazione sotto l’obiettivo, ne sarebbe derivato che l’inflazione media sarebbe risultata dopo il 2008 più elevata dell’effettiva di circa 0,30 punti percentuali e l’output gap (distacco della crescita effettiva dal potenziale) si sarebbe ridotto più rapidamente.

A parte la correttezza delle due argomentazioni, il problema di fondo che la Bce non sembra affrontare è come impedire che un’inflazione significativamente sopra il 2% per parecchi mesi possa radicarsi nelle aspettative di famiglie ed imprese, ed indurre a richieste di incrementi di salari e pensioni in una rincorsa tra prezzi, salari e corsi di energia e materie prime. Questo aspetto è, invece, ben presente nelle dichiarazioni del presidente della Fed, che lo pone come uno dei principali obiettivi della condotta monetaria nel 2022.

Resta, quindi, senza risposta quale azione la Bce potrebbe intraprendere per far sì che l’inflazione non si stabilizzi su livelli sensibilmente al di sopra dell’obiettivo statutario. La recrudescenza della pandemia potrebbe aiutare, rallentando transitoriamente la domanda e con essa le pressioni sui prezzi, ma l’elevata liquidità farebbe riapparire il problema appena terminerebbe la nuova ondata di contagi.

Per l’Italia l’abbondante liquidità e le perduranti tensioni sui prezzi darebbero un sollievo alla sostenibilità del suo debito. L’aiuterebbe anche l’aver mostrato finora un’inflazione sotto la media dell’eurozona, ma mantenere questo distacco non è certo nel tempo. Per altro verso, la divergenza di politica monetaria tra Ecb e Fed non potrebbe durare a lungo perché l’interconnessione esistente tra i mercati finanziari delle due aree lascerebbe spazio a movimenti di capitali nel senso di chiudere la divergenza nel costo del credito. Pertanto, sarebbe opportuno che la Bce inizi a tener conto della necessità di non far disancorare le aspettative sui prezzi da quel polo di stabilità che ha costruito nei passati venti anni. Se si disancorassero, i costi per l’economia sarebbero molto gravi, come si è già visto in passato.

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