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Droni, chip e diritti umani. Cinesi nella lista nera Usa

Il gigante dei semiconduttori SMI e altre società che utilizzano la Ia per reprimere i diritti umani delle minoranze entrano nella lista nera statunitense degli investimenti. La linea di Washington, giudicata da Pechino come una “soppressione”, è chiara. Ma alcuni chiedono attenzione per il rischio boomerang

L’ultima novità nella crisi dei semiconduttori è la sanzione degli Stati Uniti al gigante cinese dei microchip, la Semiconductor Manufacturing International (SMI). I toni conciliatori dell’ultimo incontro virtuale tra Joe Biden e Xi Jinping non sono serviti a scongiurare un nuovo, immediato scontro. La carenza di questi prodotti, che sta rallentando le forniture in tutto il mondo, non sembra spaventare l’amministrazione Biden, più preoccupata dello sviluppo delle aziende cinesi. Queste, per anni, si sono basate sul know-how americano ma adesso Pechino vuole tentare il grande salto: qualora riuscisse a costruirsi un commercio proprio di semiconduttori, il suo mercato – già enorme, con i 180 miliardi di dollari iniettati in questo campo dal 2015 – sarebbe il più grande al mondo grazie alle numerose aziende che possiede sul territorio.

Una sfida a Washington, che si è subito messa in mezzo per tentare di ostacolare l’ascesa cinese. L’amministrazione di Joe Biden non si è fatta alcuno scrupolo della situazione in cui vertono molte aziende americane. Molte di queste, a partire da quelle di videogiochi fino alla Apple, hanno già affermato come non riusciranno a star dietro alla domanda dei consumatori. Per portare un esempio che interessa i più, il settore automobilistico conta una perdita nella vendita per 200 miliardi di dollari. Come sottolineato da Bloomberg, la proposta in esame andrebbe a discapito anche di altre aziende come la Applied Materials, la KLA Corporation o la Lam Reasearch: in sintesi, tutte quelle che lavorano con la SMI, senza cui rallenterebbero ancor di più i tempi di produzione.

Come una catena, a dover prendere atto della decisione partorita dalla Casa Bianca statunitense sono anche le aziende straniere amiche di Washington, come l’olandese ASML Holding, che devono decidere se seguire la linea degli alleati o guardare più ai propri interessi. “Se l’America mette i controlli sulle esportazioni nei confronti della Cina su una certa parte della nostra attrezzatura per i semiconduttori ma i nostri alleati non fanno la stessa cosa, e quindi la Cina può ottenere quell’attrezzatura”, ha avvertito il Segretario al Commercio Gina Raimondo, le sanzioni rischiano di essere “inefficaci”.

Tuttavia, anche negli Usa il dibattito è in corso e si divide tra chi chiede al governo democratico di rivedere alcune posizioni – in primis il Consiglio di sicurezza nazionale e il Dipartimento della Difesa – e chi invece è alla ricerca di un coordinamento internazionale tra Stati che producono lo stesso know-how. La cooperazione con altre nazioni, meglio se asiatiche, è una questione prioritaria per l’amministrazione statunitense che, nel frattempo, non resta di certo a guardare.

Deve essere letto in questo senso il Chips Act, quello che viene definito come l’intervento governativo più importante nel settore tecnologico. Cinquantaquattro sono i miliardi di dollari messi a disposizione per cercare di avvicinarsi a Pechino e provare ad essere indipendenti quanto a produzione di semiconduttori. D’altronde, come ha ricordato il senatore democratico Mark Werner, se è difficile per un’azienda statunitense competere con una rivale cinese dato che “entro il 2025, la Cina mira a raggiungere il 70% di autosufficienza nelle industrie ad alta tecnologia ed entro il 2049, nel centenario della Repubblica popolare, cerca una posizione dominante sul mercato”, gli Stati Uniti non possono rimanere inermi. Ma, avvertono da Forbes, spendere tanto non significa automaticamente spendere anche bene.

Il provvedimento contro la SMI arriva insieme all’ennesima revisione della black list delle aziende cinesi stilata dagli Stati Uniti. Con le ultime otto, si è arrivati a un totale di oltre sessanta società con cui agli investitori americani è vietato condurre affari. Tra queste, il Dipartimento del Tesoro ha voluto colpire anche il più grande produttore mondiale di droni, la DJI, visto il suo ruolo attivo nella sorveglianza che il governo centrale porta avanti contro la popolazione dei Uiguri e le altre minoranze etniche. Allo stesso modo qualche giorno fa la sua concorrente, la start-up SemseTime Group, aveva dovuto rinviare la sua IPO di Hong Kong – dove ha sede – da 767 milioni di dollari, dopo esser finita nell’elenco nero. La volontà di Washington sembrerebbe proseguire proprio nella direzione di tolleranza zero verso persone o aziende che violano il rispetto dei diritti umani, mentre da Pechino parlano di “soppressione”.

Come scrive il Financial Times, le altre società interessate sono Megvii, l’azienda tech specializzata nel riconoscimento delle immagini e di deep learning; il produttore di supercomputer Dawning Information Industry, che gestisce i servizi di cloud nella regione nord occidentale dello Xinjiang; CloudWalk Techonology, nel campo del riconoscimento facciale; Xiamen Meiya Pico, che collabora con le forze dell’ordine per la sicurezza nazionale; NetPosa Technologies, che crea sistema di videosorveglianza basati sul cloud; la società di cloud computing, Leon Techinology; e infine l’azienda di IA, la Yitu Technology.

Si può dire che si attendeva solo la chiusura del cerchio, date che tutte figuravano già nella “Entity list” del Dipartimento del Commercio statunitense. Quella di inserire la DJI fu proprio una delle ultime volontà di Donald Trump prima di lasciare la Casa Bianca, a cui l’azienda aveva risposto convinta di “non aver fatto nulla per giustificare l’inserimento nell’elenco”.

Oggi, tra l’altro, è previsto l’inserimento di ulteriori dodici società, comprese quelle che lavorano nel campo della biotecnologia. La decisione ha rapidamente accelerato la svendita delle azioni sanitarie cinesi, con l’impatto più forte che si è registrato ad Hong Kong (-7,6%), oltre a rovinare la festa all’azienda cinese BeiGene, al debutto in Borsa. Le preoccupazioni di nuove sanzioni, infatti, hanno trasformato il lancio in un tonfo.

Dunque, anche se per alcuni rischia di essere controproducente, dalla leadership per i semiconduttori al rispetto dei diritti umani la posizione degli Stati Uniti appare chiara e lo sta facendo intendere a Pechino a suon di sanzioni.


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