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La crisi in Libano sarà risolta o resa perpetua?

beirut libano

Di ritorno da una recente missione in Medio-Oriente, Igor Pellicciari (ordinario di Relazioni internazionali all’Università di Urbino) è stato colpito dalla poca attenzione data in Occidente a un particolare aspetto del momento libanese, che invece rischia di avere un impatto devastante sul quadro demografico del Paese

Svariati fattori contribuiscono a determinare la cosiddetta agenda internazionale, ovvero l’ordine di importanza con cui vengono affrontati temi e situazioni a livello multilaterale.

Tra i principali vi sono i rapporti di forza risultanti tra i singoli Stati sovrani e l’orientamento delle strutture politico amministrative delle Organizzazioni Internazionali cui essi aderiscono, secondo un’osmosi al meglio rappresentata dai lavori del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (probabilmente l’unica delle diramazioni istituzionali dell’Onu ad avere mantenuto nel tempo una certa rilevanza).

I media si discostano di rado da questa agenda. La seguono quasi in automatico, senza interrogarsi quanto essa rispecchi le vere emergenze del momento, cosicché accade spesso che scenari potenzialmente esplosivi siano assenti dalle headlines, qualora la Comunità Internazionale, per vari motivi, li tenga in secondo piano. Magari non per disattenzione ma per incapacità di trovare soluzioni valide ai problemi che si presentano.

Quando poi la situazione sul campo degenera, l’informazione corre precipitosamente ai ripari e se ne occupa con tardiva bulimia di cronache sul come piuttosto che sul perché della nuova crisi.

L’ultima volta è accaduto la scorsa estate quando, finito di celebrare medaglie “storiche” poi cadute nel prevedibile oblio post-olimpico, il mainstream si è risvegliato con enorme ritardo sull’Afghanistan.  Quando non vi era più niente da fare (e dire) se non riproporre la solita carrellata di decine di storie individuali di sofferenze.

Tutte diverse ma tutte simili, utili ad una narrazione piena di risvolti emotivi ma povera di chiavi di lettura politiche che diano un senso a quanto avvenuto.

L’impressione è che qualcosa di simile si stia ripetendo con il Libano, di cui nel complesso l’infotainment pandemico-centrico si sta occupando poco, a fronte dell’eccezionale gravità della situazione in cui sta versando il paese.

Forse perché storicamente abituati e assuefatti ad uno stato di crisi permanente che dura da decenni, si fatica oggi a cogliere la particolarità del momento, arrivato ad un punto di rottura pre-bellica, con cecchini sui tetti a sparare, come ai tempi della guerra civile.

All’acutizzarsi dei tradizionali problemi della questione libanese, le cui origini fino agli ultimi sviluppi sintetizza bene un articolo di Anna Maria Cossiga, si è aggiunta una gravissima crisi economico-sociale senza precedenti.

Di ritorno da una recente missione in Medio-Oriente, chi scrive è stato colpito dalla poca attenzione data in Occidente ad un particolare aspetto del momento libanese, che invece rischia di avere un impatto devastante sul quadro demografico del paese.

Infatti, ad essere soffocata dalla iper-svalutazione della moneta locale e dalla carenza e difficile reperibilità di beni e servizi primari (su tutti, l’elettricità) è stata in particolare una classe medio-alta urbana fatta da professionisti, intellettuali, piccoli imprenditori, artisti (spesso millennials) che è stata da sempre una delle principali risorse e attrazioni del Libano.

Chiunque si sia recato in questi anni a Beirut ne è rimasto affascinato per il mood assolutamente frizzante e vivace che la caratterizzava, sviluppatosi a prescindere da e nonostante un sistema politico bloccato, ossessionato dalla spartizione in nome della rappresentanza piuttosto che del policy making attivo.

Ora che questa classe medio-alta, messa alle strette, sta lasciando in massa il paese per trasferirsi in paesi che sente vicini dal Medio Oriente (come la Giordania o gli Emirati Arabi) all’ Europa (in primis la Francia, di cui molti libanesi hanno il doppio passaporto), al Libano viene a mancare quel collante che in passato ha tenuto insieme le forze più centrifughe del paese.

Questo è un effetto collaterale dirompente della crisi attuale che ricorda quanto già visto in altri paesi regrediti per avere perso pezzi consistenti della propria classe media, dalla Bosnia al Kosovo al Venezuela.

Eppure, questo è un aspetto di cui si parla poco a partire dallo stesso establishment libanese che nuovamente ha vestito i panni del Beneficiario-perpetuo che chiede aiuti per risolvere i problemi di oggi, senza alcun reale piano per rimuovere le cause istituzionali locali che li hanno generati.

A sua volta i Donatori (peraltro quelli Occidentali sono tra gli artefici storici di questo come di altri problemi nel Medio Oriente) rispondono con soluzioni quantitative “pay-but-not-play” che non toccano le regole del gioco locale e che sembrano strumenti per aumentare il mero controllo geo-politico sul paese.

Anche in Libano gli aiuti internazionali prescindono dal mettere mano ad una costituzionalizzazione su base etno-religiosa che ricorda drammaticamente quella bosniaca, sia nelle soluzioni trovate che nei problemi all’apparenza insormontabili che ha istituzionalizzato.

Nel mandare avanti il Fondo Monetario Internazionale, la Comunità Internazionale fa chiaramente capire che si accontenterà di eventuali riforme di maquillage (riduzione della corruzione, maggiore trasparenza nel bilancio dello Stato etc), ma non pretenderà che si tocchino le basi costituzionali dello Stato.

Le cui regole erano state messe in discussione già a partire dalle Primavere Arabe – guarda caso – proprio da quella classe media che ora sta abbandonando il paese, stanca di essere (non) governata da una classe politica legittimata solo dalle divisioni che rappresenta e non dalle politiche che esprime.

La sua uscita di scena semplifica obiettivamente il tutto e riporta gli attori classici sul prevedibile terreno del negoziare il semplice rinnovo di consolidate forme di aiuto, finanziarie o strategiche che siano.  Come l’ennesima prosecuzione della missione di interposizione di UNIFIL, da tempo coordinata dall’Italia. Classificabile come un altro classico intervento del tipo “pay-but-not-play”.

In fin dei conti, si torna all’obiettivo di congelare e stabilizzare la crisi, piuttosto che di risolverla.

Un caro vecchio schema di gioco internazionale che conviene non solo in Libano.

Sia ai Donatori in competizione geo-politica che ai Beneficiari Perpetui.


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