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Cry Macho, la famiglia secondo Clint Eastwood

Lo splendido novantenne, Clint Eastwood, attore e regista, con il poetico Cry Macho (2021) ci fa riflettere sull’adolescenza, sulla mancanza di un padre, su una madre leggera e distratta, sul bisogno di famiglia. Ancora un racconto stilisticamente dedicato alla veloce-lentezza dei gesti, degli sguardi e del cuore. Il parere del critico e storico del cinema Eusebio Ciccotti

Siamo nel 1980. Un padre messicano trapiantato in Texas, Howard (Dwight Yoakam), domatori di cavalli e organizzatore di rodei, vuole “portare” suo figlio, Raphael (Eduardo Minett), ora quindicenne, residente a Città del Messico, in Texas. Rafo (è il suo diminutivo) è ufficialmente affidato ad una madre viziosa e distratta, Leta (Fernanda Urrejola: educatamente volgare e seducente alla Luis Buñuel). Siccome egli ha un pessimo rapporto con la madre che rifiuta la maternità, sovente dorme fuori casa e pratica il combattimento dei galli, a scommessa, con il suo gallo, “Macho” (“Forte”), per guadagnare qualcosa ed essere indipendente.

Howard non può recarsi in Messico per problemi fiscali (così dice). Incarica un suo vecchio amico, Mike (Clint Eastwood), un ex abile domatore di cavalli, vincitore di rodei, ora malridotto, “d’andare a prenderlo”. L’anziano cowboy non può rifiutarsi, essendo stato da Howard aiutato nei momenti della sua depressione, conseguenza della improvvisa interruzione di carriera di promettente domatore, e campione di rodei, a causa d’una brutta caduta.

L’anziano ma attento Mike, il “gringo”, senza conoscere lo spagnolo, dovrà affrontare diverse situazioni in terra messicana, guadagnarsi la fiducia del ragazzo, difendersi dallo scagnozzo agli ordini di Leta che lo minaccia di morte, schivare la polizia di frontiera, attraversare villaggi, deserti, con auto vecchie rimediate ma anche a piedi, dormire in luoghi di fortuna (come una bella chiesetta-santuario dedicata alla Vergine di Guadalupe). L’antieroe Clint riuscirà nell’intento, ma a modo suo, spiazzando lo spettatore nel finale.

Cry Macho (2021), prodotto e diretto da Clint Eastwood, è un film acutamente stratificato. È un road movie, un viaggio di formazione, un western. Road movie perché cita gli stilemi del genere, ossia l’andare verso l’ignoto sul nastro di asfalto che attraversa deserti, campagne, e piccoli centri. Perché nell’abitacolo della station wagon anni Settanta i caratteri, di Mike e Rafo, prendono fisonomia attraverso battute brevi, e inquadrature strette ed eloquenti. Incluse quelle dedicate a “Macho”, autentico deus ex machina.

È un viaggio di formazione intergenerazionale: Mike, che pensava di finire la sua vita in un ranch seduto, a fissare il nulla, ri-scopre il mondo dell’adolescenza senza famiglia; Rafo, pian piano, capisce che quel simpatico vecchio sa fare il padre anche se anagraficamente sarebbe un bisnonno.

È, infine, un western in cui il personaggio positivo va a salvare un ragazzo che conosce solo adulti “depravati” dai quali sta fuggendo. È un western anche per i rimandi iconografici. Si vedano le scene in cui Mike e Rafo, a corto di denaro, si guadagnano il necessario domando cavalli selvaggi in un ranch; o le soste notturne, durante il lungo viaggio, sia quando Mike è solo, sia con Rafo, in cui si dorme all’aperto, accanto al focolare. E persino i titoli hanno i caratteri corposi (sui “tipi Bodoni”), simili a quelli usati nei western di Sergio Leone.

Eastwood-attore misura i suoi movimenti volutamente lenti e ragionati, riflessivi, come abbiamo imparato a osservarlo nelle sue ultime opere, particolarmente in Gran Torino e The Mule. Riduce all’essenziale i primi piani, preferendo inquadrare il personaggio in piani d’insieme in relazione agli altri personaggi e all’ambiente, a sdrammatizzare, a lavorare in sottrazione, evitando l’eccitazione dei volti di tanto cinema drammatico.

Eastwood-regista pur concedendosi l’irriverenza verso la sintassi cinematografica (qui un paio di “salti di campo”) sa essere “contemporaneo”, per esempio, con il ricorso al drone sul nastro d’asfalto nel deserto, ma omaggia simultaneamente il “classicismo” (ancora il western), come quell’orizzonte merlato di rosa prima dell’imbrunire, mentre Mike si corica sul tappeto della prateria.

L’abile sceneggiatura di Richard Nash e Nick Schenk non rinuncia, come la scuola hollywoodiana insegna, a delle sentenze di filosofia quotidiana, amate dal pubblico americano, facilmente esportabili. Mike, dopo aver conosciuto la bella vedova messicana Marta (Natalia Traven: lo sguardo e la poesia di Silvana Mangano), che ha ospitato i due viaggiatori, e manda avanti il ristorante del villaggio, crescendo due splendide nipotine orfane, sordomute, con serenità e sorriso, riflette su se stesso: “Gli uomini per tutta la vita danno importanza e rincorrono cose che poi, dopo anni, risultano inutili”.

In Cry Macho, in accordo con gli sceneggiatori, Eastwood apre uno spiraglio alla fede, ma mantenendo, per il suo personaggio, una posizione “neutra”. Marta e Rafo credono in Dio, da buoni cattolici, del resto sono messicani. Il gringo, a tavola, prima del pasto, diversamente da Marta, le sue nipotine, e Rafo, non prega, non si segna. Ma è rapito dalla atmosfera di famiglia che Marta sa creare. Quella poesia di famiglia che lui, perdendo moglie e figlio in un incidente d’auto anni prima, ha dimenticato.

Rafo gli chiede se crede in Dio, l’uomo risponde “penso di sì”. E quando il ragazzo aggiunge che “siamo figli di Dio”, Mike replica con una battuta, purtroppo, poco originale, “siamo tutti figli di qualcuno”. Qui Eastwood appare politically correct, forse, troppo hollywoodiano.

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