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Il mondo ha un problema che si chiama debito. Ma c’è chi sta meglio. Scrive Polillo

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Il debito globale ha raggiunto i 226 trilioni di dollari, collocandosi ormai al 256 per cento del Pil mondiale. Un’accelerazione particolarmente intensa a causa della pandemia. Ma non tutti i Paesi sono inguaiati allo stesso modo. L’Italia, per esempio…

È allarme rosso. È stato soprattutto il Fondo monetario ad esternare tutta la sua preoccupazione: il debito globale – ha titolato in un suo ultimo e recente report – ha raggiunto i 226 trilioni di dollari. Collocandosi, ormai al 256 per cento del Pil mondiale. L’accelerazione è stata particolarmente intensa nel 2020, a causa della pandemia.

Vi ha contribuito, da un lato la maggiore spesa pubblica che si è resa necessaria per supportare famiglie ed imprese, alle prese con il lockdown; dall’altro la forte caduta del Pil (meno 3,1 a livello globale), che ha coinvolto, seppure in misura diversa, tutti i Paesi: meno 4,5 per cento per le economie avanzate e 2,1 per quelle emergenti. Nel 2020 l’aumento percentuale maggiore si è verificato per il debito pubblico.

“Durante la pandemia, – annota il report – i governi e le banche centrali hanno garantito ulteriori prestiti al settore privato per proteggere vite e garantire mezzi di sussistenza”. Negli anni precedenti, tuttavia, era stato soprattutto il debito privato a mettere a segno i maggiori progressi. Rispetto al 1970, infatti, mentre il primo era aumentato del 99 per cento, quello privato aveva fatto registrare una crescita totale del 156 per cento: 98 per cento per le imprese non finanziarie e 58 per cento per le famiglie.

Percentuale quest’ultima in continua crescita, a causa delle contraddizioni storiche di questa fase di sviluppo. Oggi il credito al consumo, specie nei Paesi più sviluppati, come Stati Uniti o Gran Bretagna, rappresenta quel business che consente ai ceti meno abbienti di poter avere una vita meno grama. Almeno fin quando i debiti contratti non dovranno essere rimborsati.

Il che, stando almeno a quello che si intravede all’orizzonte, potrebbe avvenire quanto prima. Da un lato la ripresa del processo inflazionistico, indotto dal caro energia e dalla riorganizzazione delle grandi catene di approvvigionamento, dall’altro i propositi delle principali Banche centrali – Fed e Bce – decise a contrastarla, facendo leva sui tradizionali strumenti di controllo del ciclo: rialzo dei tassi di interesse e riduzione degli acquisti di titoli sia pubblici che privati. Contrasto che potrebbe determinare un vero e proprio corto circuito.

Al momento si prevede una progressiva riduzione degli acquisti netti di attività finanziaria, fino al loro azzeramento. Seguirà, quindi, un progressivo aumento dei tassi d’interesse e solo alla fine una (parziale) riduzione degli stock di titoli accumulati, a seguito del quantitative easing (Qe). Questo almeno il programma delle due Banche centrali sulle due sponde dell’Atlantico. Con una FED più aggressiva ed una BCE più riflessiva.

Diversa, soprattutto, la tempistica. L’aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti è previsto per il prossimo marzo-aprile 2022, in Europa solo alla fine dell’anno. Opposta, a quanto sembrerebbe, la scelta sulla conservazione dei titoli tenuti in portafoglio. La Fed appare meno determinata, mentre la Bce è orientata a chiudere la Pepp (Pandemic emergency purchase programme) per rafforzare l’altro programma (Asset Purchase Programme – App), seppure in misura inferiore rispetto alle aspettative dei mercati. Differenze di comportamento che si giustificano con la diversità della fase ciclica. Rispetto al 4,9 per cento della zona euro, negli Usa l’inflazione viaggia ad un tasso del 6,8 per cento. Inoltre la strategia dell’average inflation targeting sembra aver esaurito i margini a sua disposizione: a causa del rialzo intervenuto nel tasso di inflazione che ha più che compensato i precedenti mesi di bonaccia, facendolo crescere, nel medio periodo, oltre il limite del 2 per cento.

Ma per tornare all’Eurozona: gli acquisti della Bce, nell’ambito del programma App, passeranno dagli attuali 20 a 40 miliardi al mese, nel secondo trimestre del 2022. Nel terzo trimestre scenderanno a 30, per poi stabilizzarsi a 20 da ottobre in avanti. Il roll-over, ossia il reinvestimento dei proventi derivanti dai titoli posseduti, continuerà almeno fino alla fine del 2024. Al tempo stesso vi potrà essere una deviazione dalle capital keys. I nuovi investimenti non dovranno più essere rigidamente proporzionali, come in passato, dando maggiore flessibilità alla politica monetaria e tradursi in un possibile vantaggio per i Paesi (Italia in testa) più indebitati.

L’impatto dei cambiamenti annunciati può incidere sulla solvibilità del debito (pubblico e privato). Specie se si considera il dinamismo dei movimenti finanziari connessi con la posizione patrimoniale estera di ciascun Paese. In questo caso, oltre la loro dimensione complessiva conta soprattutto loro ripartizione. Come risulta evidente dalla tabella del Fmi relativa ai Top ten: i dieci Paesi che presentano i maggiori squilibri nei rapporti con il resto del mondo.

Gli Usa rimangono i principali debitori. Il signoraggio sul dollaro consente loro di non preoccuparsi eccessivamente del problema, almeno fin quando le varie Banche centrali saranno costrette ad accumulare dollari nelle loro riserve valutarie. Rispetto al 2015, gli ultimi dati (2020) mostrano un notevole peggioramento. All’inizio il loro peso era pari al 56,6 per cento del totale complessivo dei Paesi più indebitati con l’estero. Nel 2020 questa percentuale sale al 70 per cento. Ne guadagnano gli altri nove, che vedono il loro debito scendere, almeno in percentuale sull’intero campione.

Tutti meno che la Francia. La sua posizione debitoria passa dal 2,3 al 4,3 per cento. Sul fronte opposto, quello dei crediti, si assiste ad un maggior livellamento, a scapito del Giappone che scende dal 27,8 al 21,5. Guadagnano, nell’ordine: la Germania che passa dall’11,6 al 15,9 per cento; il Canada dal 3,3 al 6,6 e l’Olanda dal 3,8 al 7 per cento. Dall’insieme di queste valutazioni risulta abbastanza evidente che l’eventuale giudizio sulla solvibilità finanziaria di un qualsivoglia Paese non può che fondarsi sul comparing dei dati riguardanti tutti e tre gli elementi: vale a dire debito pubblico, privato e posizione netta con l’estero. Solo questo raffronto consente, infatti di svelare, alcuni piccoli misteri. Paesi che, in passato, sono risultati solidissimi, pur avendo un enorme debito pubblico. E Paesi che sono stati sanzionati duramente dal mercato, nonostante un debito pubblico più che contenuto. Appartengono indubbiamente alla prima categoria il Giappone ed il Belgio, alla seconda la Spagna.

Il Giappone ha il più alto debito pubblico del mondo. Nel 2020, secondo i dati del Fmi, è stato pari al 254,1 per cento del Pil, con una crescita relativamente regolare, a partire dal 1995 (92,5 per cento del Pil), pari a poco meno il 4 per annuo. Il debito privato, invece, ha avuto, nello stesso periodo un andamento discendente, al ritmo dell’1 per cento all’anno, passando dal 288,5 del 1995, al 221,9 del 2020. Comunque sia, il debito complessivo è risultato essere il più alto in assoluto a livello mondiale, raggiungendo nel 2020 un valore pari al 476,1 per cento del Pil. Eppure nonostante ciò la solvibilità finanziaria del Giappone è a prova di bomba, al punto, che nelle fasi di turbolenza dei mercati, lo yen è stato sempre considerato un bene rifugio. La spiegazione è tutta nella sua posizione patrimoniale posizione. Il Giappone è il primo creditore nei confronti dell’estero: nel 2020 i suoi crediti verso il resto del mondo ammontavano al 68,2 per cento del Pil, per un importo pari a 3.440 miliardi di dollari. Più di una volta e mezzo il Pil italiano.

Il caso del Belgio è per molti versi simile. All’inizio, nel 1995, il suo debito pubblico era addirittura superiore a quello italiano: 131,3 per cento del Pil, contro il 119,4. Poi nel 2000 il pareggio e quindi il miglioramento. Nel 2020 sarà pari al 114,1 del Pil, contro il 155,8 per cento dell’Italia. Nel 1995 il suo debito privato era già più alto, rispetto all’Italia (151,5 del Pil contro il 123,1). Da allora il suo tasso di crescita era stato di gran lunga più sostenuto: un tasso medio annuo del 2,3 per cento, contro l’1,5 italiano. Risultato finale: 273,5 del Pil, rispetto al 180,2 del Bel Paese. Il debito globale belga, nel 2020, risulta comunque, seppur di poco, superiore a quello italiano. Ma nel 2011, quando si temeva che il contagio greco potesse colpire i paesi più fragili dell’Eurozona, l’Italia pagò il prezzo di un attacco speculativo contro i suoi titoli. Nel Belgio, invece, nemmeno un piccolo sussulto. Grazie al suo forte credito nei confronti dell’estero (il 51,4 per cento del Pil), mentre il debito italiano, sempre verso l’estero, era del 18,2 per cento.

Per la Spagna e gli altri Gipsi (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna ed Italia), costretti a subire le cure del Fondo salva Stati e dello stesso MES (il Meccanismo europeo di stabilità, dal quale l’Italia si salvò per il rotto della cuffia), fu diverso. L’effetto domino, come si ricorderà, partì da Atene, per colpire poi Dublino e quindi estendersi a Lisbona e Madrid. Roma fu coinvolta solo alla fine e le conseguenze, soprattutto politiche oltre che economiche e finanziarie, furono devastanti. L’ultima coda velenosa fu quella di Cipro che rischiò la definitiva bancarotta.
Vi furono analogie tra queste diverse storie e profonde differenze.

Tutte avevano in comune un eccesso di debito pubblico e di debito privato. Il debito globale oscillava dal 290 per cento del Pil della Grecia, al 400 per cento del Portogallo. Allora, tuttavia, si dette particolare importanza non tanto all’indebitamento globale, quanto al peso del debito pubblico che era profondamente diverso da Paese a Paese. Si andava dal 147,5 per cento del Pil della Grecia, al 60,5 per cento della Spagna. Quindi, stando almeno alla declaratoria di Maastricht, la Spagna poteva essere annoverata tra i Paesi più virtuosi, avendo un rapporto debito pubblico/Pil di gran lunga inferiore alle medie dell’Eurozona. Ed invece in Spagna, almeno fino al 2011, lo spread sui suoi titoli, i Bonos, aveva superato di almeno di 100 punti quello sui Cct italiani.

Del tutto trascurata fu anche la relativa posizione nei confronti con l’estero. Le cui differenze contribuiscono a spiegare la dinamica della crisi. Il debito estero greco era pari al 99,8 per cento del Pil; quello irlandese al 113,8; il Portogallo viaggiava sull’onda di un indebitamento estero del 107,2 per cento del Pil, di un pizzico superiore a quello spagnolo ch’era pari al 91 per cento. Il che spiega perché i due Paesi, tra le mille cose che li legava, erano uniti in un tragico destino. Il debito estero italiano era invece pari al 20,1 per cento del Pil: situazione di relativa tranquillità destinata a compensare le preoccupazioni inerenti la dimensione del debito pubblico. Ed, in effetti, il Bel Paese fu tra gli ultimi ad essere coinvolto nella crisi, anche a causa di una situazione politica interna, che non lasciava molto ben sperare.

La diversa natura dell’indebitamento spiega anche il diffondersi della crisi e la sua velocità. Il debito pubblico è quello più stabile. In genere i relativi titoli finiscono in pancia degli intermediari creditizi, sui quali il controllo della Banca centrale è penetrante. Anche il debito privato è relativamente fermo: alla sua origine sono, in prevalenza, contratti e finanziamenti bancari. Negli ultimi anni, specie in Paesi come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, il peso del cosiddetto shadow banking (quell’insieme di intermediari finanziari che non sono sottoposti a supervisione normativa) è fortemente cresciuto. In passato operava soprattutto nel comparto dell’edilizia, oggi nel credito al consumo. Anche in questo caso, tuttavia, trattandosi, in genere, di subprime l’attenzione degli operatori è massima.

I finanziamenti legati, invece, alla dinamica delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, dal cui cumulo deriva la situazione patrimoniale nei confronti con l’estero, sono regolati da un semplice automatismo. I Paesi in surplus, come il Giappone, la Germania, l’Olanda o la Danimarca avendo un eccesso di risparmio, che non utilizzano al proprio interno, finanziano i Paesi in deficit, per il tramite del sistema finanziario internazionale. Ovviamente si tratta di hot money: fondi che sono trasferiti, con estrema rapidità, da un Paese all’altro alla ricerca del maggior rendimento, ma anche pronti alla fuga al primo segnale di pericolo. “Sudden stop”: secondo la nuova terminologia coniata per indicare la rapidità di quei passaggi. Ed ecco allora spiegato il perché, nello spazio di qualche settimana, i rapporti tra i Bonos spagnoli ed i Cct italiani, in termini di spread, subirono quel drastico rovesciamento.

Quindi massima attenzione per il fenomeno. Al di là della dimensione degli eventuali debiti – che comunque conta – la loro pericolosità è data dalla loro possibilità di innescare fenomeni più perniciosi. Possono essere la miccia che fa brillare la mina e far tracimare l’intera struttura del debito (pubblico e privato) accumulato in precedenza. Questo, almeno, è il lascito della crisi del 2011. Come detto in precedenza, in Italia, quel debito estero, pari solo al 20,1 per cento del Pil, era solo la punta di un iceberg la cui massa era rappresentata, da un debito complessivo, pari al 300,1 per cento del Pil. Bastò quindi poco per innescare la crisi.

Per fortuna, da allora, molta acqua è passata sotto i ponti. Mentre in Spagna ed in Portogallo (ma non in Grecia ed Irlanda) si assiste ad un leggerissimo miglioramento, in Italia i progressi sono stati ragguardevoli. Da una posizione debitoria, si è rapidamente passati ad una creditoria, che alla fine dello scorso anni era pari al 2,4 per cento del Pil. Ma che a distanza di soli sei mesi, secondo i dati dell’ultimo Bollettino economico della Banca d’Italia, è più che raddoppiata: “89,6 miliardi di euro, pari al 5,2 per cento del Pil, in aumento di 39,1 miliardi rispetto alla fine di marzo.”

Un dinamismo degno d’attenzione, specie se questa realtà è confrontata con quella della Francia. Che, invece, si trova a vivere una realtà ben più preoccupante: non solo essere catalogata dal Fmi tra i dieci Paesi con il più alto debito estero in relazione al Pil, ma costretta ad assistere ad un continuo e progressivo peggioramento della sua posizione debitoria. Storie diverse, quindi. Di cui si dovrà tener conto, quando si tratterà di ridiscutere le nuove regole del Patto di stabilità.

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