Il deputato di Fratelli d’Italia sull’investimento da 5 miliardi dei cinesi nel porto di Palermo: Draghi metta il golden power, noi al governo l’avremmo già fatto. Non è business, è una trappola: decidono loro quali merci devono entrare. Hanno già le supply chain tecnologiche, difendiamo la rete portuale
Più che un affare, “una trappola”. Non usa mezzi termini Andrea Delmastro, deputato di Fratelli d’Italia in Commissione Esteri. Il piano di investimenti da 5 miliardi di euro nel porto di Palermo delle aziende di Stato cinesi Cosco Shipping Ports e China Merchants Port Holdings, riportato dal Quotidiano del Sud, deve suonare un campanello d’allarme a Palazzo Chigi, dice il deputato. Almeno su questo l’unico partito di opposizione e il governo vanno d’accordo: “Il porto di Palermo deve sfuggire alle mire commerciali o espansionistiche cinesi”, ha confidato mercoledì a Formiche.net il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè.
Delmastro, non è solo business?
Partiamo da un presupposto: con questo investimento il porto di Palermo diventa uno snodo fondamentale per la rete della trappola del debito che la Cina sta tessendo in Africa e nel Mediterraneo fino all’Occidente. Chi apre le porte delle nostre infrastrutture critiche ai cinesi fa come Efialte, lo spartano che ha aperto il varco ai persiani.
Non le sembra esagerato?
Anche il Dipartimento di Stato americano fa il paragone con l’antica Grecia. Se vuole entriamo nel merito: l’Italia non può permettersi una cosa del genere. Ne va del nostro rapporto con la Nato ma anche della difesa del nostro mercato interno.
Qui si parla di una maxi-piattaforma per il trasporto dei container. È davvero una minaccia?
Non conta solo l’investimento, ma il metodo che c’è dietro. Conosciamo bene i metodi cinesi: prendono in gestione le infrastrutture portuali in difficoltà promettendo di ripianare i debiti. Dal giorno dopo arrivano le merci, ma sono loro a decidere chi entra e chi esce.
Qualcuno potrebbe rispondere: è il mercato.
Le cose non stanno così. Abbiamo già visto la trappola cinese del debito in azione. Citofonare all’Etiopia di Ghebreyesus, il direttore dell’Oms che ha negato fino all’ultimo la pandemia. Qui siamo di fronte a un’operazione politico-industriale. Ci siamo cullati per anni nell’idea che esistesse una “fabbrica del mondo” cinese, che avremmo vissuto di economia dei servizi. Oggi scopriamo che le aziende cinesi, dopo aver destrutturato la nostra catena industriale, ci stanno portando via anche la seconda.
Tornando a Palermo, qual è il problema?
Il problema è semplice. La pandemia è stata un brusco risveglio per l’Europa. Ci siamo resi conto che metà delle componentistiche tecnologiche dei marchi occidentali è di fabbricazione cinese, sulla crisi dei semiconduttori si gioca il futuro dell’automotive. Dare ai cinesi anche la possibilità di decidere quali merci entrano nei porti italiani è un azzardo troppo grande. Significa rinunciare a qualsiasi chance di rilocalizzare l’industria.
Quindi che alternative ci sono? Il golden power?
Non è una strada facile. Ma è anche vero che la normativa è suscettibile di estensione. Se al governo ci fossimo noi, che abbiamo sempre criticato l’improvvida Via della Seta, rafforzeremmo il golden power sulle infrastrutture portuali strategiche, come Palermo.
Però serve anche una strategia. Se la Cina viene fermata, chi fa gli investimenti?
Il Mezzogiorno ha un problema di infrastrutture, questo è fuori di dubbio. Ci sono vie d’uscita meno dolorose che appaltarle alla Cina, chiedete ai greci se sono contenti della cessione di sovranità al Pireo.
Ad esempio?
Il Recovery plan è un’occasione unica. Abbiamo porti di livello, come Gioia Tauro, che vengono oscurati da altri porti europei, ad esempio Rotterdam, perché in Italia mancano le infrastrutture interne per trasportare le merci. Con la retorica del “ci pensiamo noi” i cinesi hanno preso di mira l’Italia, perché è la porta dell’Occidente. Ma vale il vecchio proverbio: Timeo Danaos et dona ferentes.