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Le regole per Big tech e le tensioni tra Usa e Ue. O meglio, Francia…

Alle preoccupazioni del segretario al Commercio Gina Raimondo risponde il commissario europeo per il mercato interno Thierry Breton, che chiede una collaborazione senza interferenze. I tempi per l’approvazione finale stringono e la tensione tra Washington e Bruxelles è sempre più alta

Finché non si arriverà all’approvazione definitiva, per il Digital Markets Act (Dma) sarà una battaglia serratissima. Il battibecco tra Stati Uniti ed Unione europea sulle norme che dovranno regolamentare le big tech non accenna a smettere. L’incipit all’ultimo capitolo di questa lunga storia arriva dalle parole del segretario al Commercio statunitense, Gina Raimondo, che ha espresso “serie preoccupazioni” per l’impatto sproporzionato che subiranno le aziende americane non solo per il Dma, ma anche per il Digital Services Act (Dsa). Rivolgendosi ai legislatori europei, il segretario Raimondo ha chiesto perciò di “continuare ad ascoltare le nostre preoccupazioni”, prima di arrivare ad una decisione definitiva.

Thierry Breton Gina Raimondo

Le ansie americane arrivano in seguito alle dichiarazioni dell’eurodeputato tedesco Andreas Schwab, che aveva invitato i suoi colleghi a concentrarsi “sui problemi più grandi, sulle strozzature più grandi. Solo allora continueremo giù per la lista”. Per lui le aziende da regolamentare dovrebbero essere cinque, al massimo sei se nel calderone viene inclusa anche la cinese Alibaba, ma nessun “gatekeeper europeo” deve essere interessato “per compiacere Biden”. Parole dure che la Casa Bianca non poteva ignorare. E allora, ecco la pronta risposta di Raimondo.

A favore delle sue affermazioni si sono schierati compatti i gruppi industriali tecnologici americani, alcuni rappresentati dalla Chamber of Progress, che conta alleati come Amazon, Google, Twitter ed altre grandi aziende del settore. Proprio mercoledì, nel giorno in cui il Parlamento europeo ha approvato la bozza del Dma, la Chamber of Progress ha inviato una lettera al presidente Joe Biden per ringraziarlo di tutti gli sforzi a favore dei lavoratori americani. In questo modo, sono state scacciate le accuse lanciate dalla senatrice democratica Elizabeth Warren, che giudicava le affermazioni di Raimondo non in linea con la posizione governativa. Dello stesso avviso della senatrice del Massachusetts anche l’American Economic Liberties Project, che ha contestato il segretario al Commercio chiedendole di rivedere le sue posizioni. Divisioni interne che meritano di essere raccontante, ma che non appaiono determinanti dato che gli Stati Uniti sono compatti nel chiedere più giudizio all’Europa.

La posta in palio è troppo alta per commettere passi falsi da cui sarebbe complesso tornare indietro. La collaborazione che sia Bruxelles sia Washington si augurano di intraprendere, però, rimane al momento solo nelle loro intenzioni. I fatti raccontano altro, come testimoniano le affermazioni del commissario per il mercato interno europeo Thierry Breton, “un po’ stupito” nell’ascoltare le parole del segretario Raimondo con la quale si era già chiarito sull’argomento. A lei rinnova l’invito a discuterne nuovamente, senza “bisogno di ulteriori pressioni”.

Anche perché, ha sottolineato il commissario francese, la regolamentazione partorita da Bruxelles non rappresenta un “qualcosa che facciamo contro qualcuno” ma è volta “ai nostri cittadini e alle nostre aziende”. Se qualcuno tra i diretti interessati avesse avuto voglia di esprimere il proprio disaccordo avrebbe potuto farlo prima, ha sottolineato ricordando come le grandi società come Google e Facebook avevano il suo “numero di cellulare”. Inoltre, queste erano state informate con largo anticipo della bozza sul regolamento, alle cui discussioni avevano preso parte e, dunque, avevano tutto il tempo “per esprimere le loro preoccupazioni”.

Il cuore del suo discorso però è un altro. Dato che anche gli Usa stavano legiferando sulla stessa materia, Breton ha dichiarato come non abbia voglia di “interferire con ciò che sta accadendo negli Stati Uniti e penso che sia giusto non interferire in ciò che sta accadendo in Europa. È un modo equilibrato di fair play tra partner alleati”. Insomma, ognuno guardi in casa propria. Non proprio il massimo per allentare le tensioni e riprendere una strada comune.

Parlamento europeo Vastager Schwab Dma
Schwab e Vestager

A gettare (poca) acqua sul fuoco ci ha pensato il suo connazionale Cédric O, ministro del Digitale, che si augura di vedere anche molte aziende francesi nel Dma, in quanto vorrebbe dire metterle sullo stesso livello di quelle americane – al momento notevolmente più grandi. Da Parigi quindi cercano di rassicurare Washington, anche se il ministro ha voluto comunque annotare come le passate preoccupazioni europee sul Cloud Act americano siano state completamente ignorate e non siano servite a bloccarne l’approvazione. Con questo infatti le forze dell’ordine statunitensi possono ottenere dati personali provenienti dall’estero per far fronte a questioni di sicurezza interna: una misura che a detta di molti violerebbe le regole sulla privacy.

Così il ministro O ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte, mantenendo distacco da Washington ma senza inimicarsela troppo. A pesare, forse, anche il prossimo viaggio negli Stati Uniti previsto per gennaio, dove lo aspetta la presidente della Federal Trade Commission, Lina Khan. La posizione francese è fondamentale visto che a gennaio Parigi avrà la presidenza di turno europea, e Macron farà di tutto per avere il voto definitivo del Consiglio sul Dma e Dsa prima delle presidenziali ad aprile. “C’è un senso di urgenza” ha sottolineato il  Ministro, poiché si tratta probabilmente dei “più importanti regolamenti della storia di Internet. La posizione francese è nota e il presidente Macron ha sempre invocato più Europa”. Fin troppa, continuano a ribadire dall’altra sponda dell’Atlantico.



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