Una giuria di Boston ha ritenuto colpevole il professor Charles Lieber, pioniere delle nanoscienze. Il processo è parte di un’iniziativa del governo Usa per contrastare lo spionaggio industriale, ma ci sono diversi interrogativi
Colpevole. È il verdetto pronunciato da una giuria di Boston, Massachusetts, nel processo contro Charles Lieber, sessantaduenne professore della prestigiosa Università di Harvard, ritenuto un pioniere delle nanoscienze e delle nanotecnologie. Colpevole di aver nascosto la sua partecipazione a un programma di reclutamento talenti del governo cinese.
Per gli Stati Uniti la semplice partecipazione non costituisce un reato. Lo è, invece, aver reso false dichiarazioni alle autorità, l’aver compilato false dichiarazioni dei redditi e il non aver dichiarato un conto bancario in Cina. Questi i reati per cui la giuria ha condannato Lieber, che si era dichiarato non colpevole.
Per l’accusa, che l’ha definito uno “scienziato strategico” per la Wuhan University of Technology dal 2011, il professore non aveva dichiarato 50.000 dollari al mese dall’ateneo cinese, fino a 158.000 in spese di soggiorno e più di 1,5 milioni di dollari in sovvenzioni per creare un laboratorio di ricerca presso la stessa l’università. In cambio, ha sostenuto la Procura, Lieber avrebbe accettato di pubblicare articoli, di organizzare conferenze internazionali e di richiedere brevetti per conto dell’università cinese.
La giuria ha dato ragione all’accusa, il cui impianto si basava su alcune mail del docente. In una di queste, raccontava il colloquio con gli agenti del dipartimento della Difesa e scriveva: “Starò attento a ciò che discuto con l’Università di Harvard, e niente di questo sarà condiviso con gli investigatori del governo in questo momento”. La dimostrazione, secondo i procuratori, del fatto che il professore era cosciente di star ingannando il governo degli Stati Uniti.
Tra le accuse, invece, non compariva quella di aver trasferito illegalmente qualsiasi tecnologia o informazioni sensibili alla Cina.
Ecco cosa scrivevamo su Formiche.net la scorsa settimana, in occasione dell’apertura del processo.
Il processo avrà inevitabili ripercussioni sul dibattito negli Stati Uniti e sul rapporto di questi con la Cina. Da una parte c’è chi parla di caccia alle streghe e maccartismo alla luce della China Initiative lanciata dal dipartimento della Giustizia nel 2018 durante l’amministrazione di Donald Trump: un gruppo di professori ha chiesto al procuratore generale degli Stati Uniti di interrompere il processo in quanto comprometterebbe la competitività del Paese nella ricerca e nella tecnologia e metterebbe di mira ingiustificatamente i ricercatori cinesi. Dall’altra c’è l’impegno del governo statunitense, continuato anche con Joe Biden alla Casa Bianca, – e non soltanto di quello statunitense – a fronteggiare la sfida a 360° gradi provenente dalla Cina.
(…) La China Initiative “si è trasformata in qualcosa di molto lontano da quello che era inizialmente”, ha dichiarato John Hemann, ex vice procuratore degli Stati Uniti a San Francisco che ha lavorato su uno dei primi casi della “China Initiative”, a Bloomberg. “È un problema politico e un problema economico, non un problema da risolvere con procedimenti penali”.
(…) “Posso assicurarvi che i casi non saranno perseguiti sulla base della discriminazione, ma solo sui fatti”, aveva spiegato nelle scorse settimane il procuratore generale Merrick Garland dopo il caso del Tennessee. In ogni caso, il dipartimento di Stato dovrebbe completare nelle prossime una review sul contrasto delle minacce poste dalla Cina, come spiegato dal portavoce Wyn Hornbuckle.
Il caso Lieber e le recenti rivelazioni di Reuters sul rapporto tra Amazon e il governo cinese sono due facce della stessa medaglia. Quanto il mercato può corrodere la democrazia e quanto la sicurezza può incidere sull’economia e il commercio internazionale? Un interrogativo che assilla le democrazie. Uniche, evidentemente, a porselo.