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Draghi “prigioniero” di Palazzo Chigi? Il mosaico di Fusi

Non può esistere una maggioranza per il governo e una per il Colle, e allora l’unico candidato capace di convogliare sul suo nome una fetta maggioritaria dei Grandi Elettori è l’ex presidente della Bce. Resta da trovare il nome per il Quirinale, e su questo…

Tutta l’Europa lo vuole lì, imbullonato a palazzo Chigi. Tutti i partiti gli rendono omaggio e spiegano che meglio di lui alla presidenza del Consiglio non c’è nessuno. Tutti i media, salvo rare eccezioni, lo apprezzano e i riconoscimenti maggiori arrivano dalla stampa internazionale: quell’etichetta dell’Economist di Country of the Year 2021 è una medaglia dello spessore di quelle conquistate da da Marcell Jacobs alle Olimpiadi: storiche e basta.

Beh, allora tutto a posto. Mario Draghi resta capo del governo e i partiti colgono l’occasione per eleggere un successore di Mattarella che li rassicuri e non provochi strappi nel tessuto della maggioranza di larghe intese. Ok? Mica tanto. Anzi per niente. Come andiamo dicendo da tempo su queste pagine, SuperMario che sale al Colle è un problema, ma se non lo fa è uno tsunami. L’ultima sortita di Matteo Salvini (“Io sto al governo con il Pd e lui che fa, scappa?”) è l’ennesima testimonianza di un pensiero cangiante che sembra ormai l’abito mentale del capo della Lega.

La conferma è arrivata poche ore dopo: “Non metto veti su nessuno”. Salvini, come tutto il centrodestra (posto che quel termine ancora significhi qualcosa politicamente), ha davanti il macigno di Silvio Berlusconi e finché non avrà trovato assieme a Giorgia Meloni il modo di aggirarlo, continuerà a zigzagare e poi dio provvederà. A differenza della leader Fdi, però, Salvini porta sulle spalle il peso del sostegno al governo assieme a Forza Italia, e non se lo può togliere.

Insomma tenere Draghi “prigioniero” alla guida dell’esecutivo, come pure dichiarano di volere Conte ed Enrico Letta, non solo finisce per essere difficile a dirsi ma soprattutto è acrobatico a farsi. E dunque? Chissà. Magari tanta sintonia, ancorché farlocca, può nascondere neanche troppo bene l’equazione che tanti sono costretti a sussurrare a mezza bocca ma che in definitiva continua ad essere la migliore poter salvare capra e cavoli.

Da esprimersi in questo modo: siccome Mattarella e Draghi sono un binomio insostituibile e per molti versi irripetibile, a fronte dell’indisponibilità manifestata dall’attuale presidente della Repubblica al bis, blindare SuperMario sulla poltrona di premier potrebbe essere l’unico modo per convincere Mattarella a cambiare idea. Un afflato unanime in Parlamento per rivotarlo non si riesce a costruire: prendendo la questione per il verso opposto, chissà se non viene più facile.

Meglio dirlo chiaro: più che un progetto politico – che peraltro come detto non si può neppure pronunciare ma solo perseguire nell’ombra – sembra un funambolismo da praticare senza rete. Vedremo. Se proprio si vuole insistere a individuare un filo per uscire dal labirinto governo-Quirinale bisogna tornare ad impugnare quello usato: e cioè che non può esistere una maggioranza per il governo e una per il Colle e che l’unico candidato capace di convogliare sul suo nome una fetta maggioritaria dei Grandi Elettori è l’ex presidente della Bce. Ovviamente, è un abbrivio che si porta appresso anche qui un macigno politico: con chi sostituire Draghi qualora diventasse capo dello Stato. Serve un accordo che presidii i confini della coalizione: è la condizione obbligata prima di passare all’esame dei nomi possibili.

Dunque mentre la pandemia non dà tregua e la legge di bilancio non è ancora in porto, si continua a navigare a vista. Chi più convintamente e chi meno, i partiti incrociano le dita dietro la schiena e attendono lumi dal presidente del Consiglio nella conferenza stampa di fine anno di mercoledì prossimo, rimproverandogli i silenzi che lo contraddistinguono: non aver detto di rinunciare al Quirinale prima, non annunciare di volersi candidare, ora. Sembrano la replica aggiornata di Michelangelo davanti al suo Mosè: ma dai, perché non parli? La risposta potrebbe essere tanto semplice quanto banale: perché non può essere Draghi a tirar fuori i partiti dalle secche nelle quali si sono infilati: tocca a loro farlo.

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