Nuove regole, nuovi problemi. A dimostrare che il lavoratore non è dipendente spetterà alle aziende. Ma avvertono: senza flessibilità, migliaia di posti di lavoro saranno a rischio. Anche la Francia si mette di traverso: non una bella notizia in vista della presidenza Ue
Stessi diritti per tutti i lavoratori. Potrebbe essere questa la chiave di lettura per decifrare i piani dell’Unione europea per regolamentare piattaforme digitali, come Uber e Deliveroo. D’altronde, “le persone sono il cuore di questo modello di business”, ha sottolineato il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis. “Meritano la stessa protezione e le stesse condizioni di qualsiasi altro lavoratore”. Alle parole del vice di Ursula von der Leyen, sono seguite quelle del commissario per il Lavoro, Nicolas Schmit, che ha voluto rassicurare su come nessuno stia tentando di affossare le grandi aziende. Piuttosto, la volontà è inserirle all’interno di una regolamentazione ad oggi grande assente.
E continuerà ad esserlo ancora per un po’, dati i tempi di adozione previsti. Bisognerà aspettare il parere del Parlamento, poi quello del Consiglio e infine attendere il recepimento da parte degli Stati, che avranno a disposizione un periodo ponte di due anni. L’Ue non vorrebbe sforare il periodo massimo fissato al 2025. Non per questo, tuttavia, si tratta di un piccolo passo in avanti. Fino a ieri, era obbligo del gig worker dimostrare di essere un dipendente dell’azienda e non il contrario. Con la nuova legislazione, invece, questa situazione viene completamente ribaltata: ad esser chiamata all’onere della prova sarà la società stessa.
Una decisione storica, basata sulle sentenze uscite dai tribunali dei vari Stati membri e su determinati criteri. Per verificare la subordinazione ne sono stati partoriti cinque, di cui almeno due devono essere necessariamente soddisfatti: il livello di remunerazione o fissazione di limiti massimi; se vi è o meno vigilanza elettronica; la presenza di norme specifiche nei confronti del lavoratore in termini di comportamento ed aspetto; se viene limitata la possibilità di crearsi una propria rete di clienti o di lavorare per terzi e, infine, se l’azienda in questione pone dei paletti sull’orario di lavoro, sulle ferie e sulla possibilità di accettare altri lavori.
Se dunque da una parte il cambiamento appare sostanziale viste le maggiori tutele riservate al lavoratore, dall’altra la classificazione redatta dall’Unione europea rischia di lasciar fuori milioni di gig worker. In Europa ammontano a 28 milioni (secondo le stime tra quattro anni, al momento dell’entrata in vigore, saranno 43 milioni) di cui un 20% erroneamente etichettato come autonomo quando invece dovrebbe essere considerato dipendente visto il tipo di impiego. Peggio ancora, solo 1,7 milioni (6%) vedranno riconoscersi la nuova classificazione.
Come scrivono dal Center for European Policy Analysis (Cepa), il dibattito è fortemente confuso e frammentato. “I tribunali di tutto il continente hanno emesso sentenze contraddittorie, alcune richiedono ai conducenti di diventare dipendenti e altre affermano che dovrebbero rimanere indipendenti. I governi stanno intervenendo e legiferando. Ad agosto”, si legge nel report, “la Spagna ha ordinato alle piattaforme di riclassificare i conducenti e corrieri allo status di dipendenti, lasciando 8mila persone senza lavoro”.
Quello che viene sottolineato a gran voce dal Cepa è che la situazione spagnola potrebbe replicarsi in altri Stati, con il conseguente moltiplicarsi delle perdite di posti di lavoro. A riportare l’esempio spagnolo, che fa riferimento alla controversa legge Rider, ci hanno pensato anche le grandi aziende del settore, ovviamente contrarie alla linea europea. L’abbandono della flessibilità nel mondo della gig economy rappresenterebbe un problema per l’intero settore. A dar manforte alla loro posizione c’è anche il risultato emerso da un sondaggio condotto dalla Copenaghen Economics. Oltre al fatto che i consumatori pagherebbero di più per un servizio inferiore, sottolineano, i guadagni dei corrieri diminuirebbero del 20%, mentre 250mila tra quelli che lavorano nel food delivery perderebbero il posto.
Nonostante le rassicurazioni, Uber si è detta “preoccupata”, così come Delivery Platforms Europe, perché l’impatto delle nuove norme potrebbe mettere “a rischio migliaia di posti di lavoro”. Molte di loro hanno instituito gruppi di pressione affinché facciano breccia tra i legislatori. Anche Move Eu, una lobby del ride-hailing – la condivisione del posto auto con le relative spese – si è scagliata contro i criteri proposti dalla Commissione.
I problemi non finiscono qua, anzi si allargano. Italia, Germania Spagna, Portogallo e Belgio si erano già espresse a favore dell’abolizione del “finto lavoro autonomo”, quello dei gig worker, ancor prima che la Commissione si esprimesse. Da Parigi, invece, non si dicono soddisfatti e non sono pronti a riclassificare questa categoria. Una grana in più, in vista della presidenza europea che la Francia si appresta a guidare.