Sin dagli anni Settanta premiata, ospitata e studiata nelle università statunitensi e canadesi. In Italia la critica engagé l’ha sempre snobbata e ritenuta regista “di cassetta”. Una nota e un ricordo personale del nostro Eusebio Ciccotti
Il pubblico cinéphile le riconosceva, al massimo, un onorevole esordio con I basilischi (1963), un omaggio ai vitelloni del Sud dopo quello di Federico Fellini dedicato ai giovanotti perdigiorno e sognatori riminesi, I vitelloni (1953). Un film, I basilischi, nel quale il destino grigio e surreale di tre giovani ci diceva molto di più sui luoghi comuni, i pregiudizi, il quieto vivere della piccola borghesia del Mezzogiorno che logorroici saggi sociologici. Per anni dimenticato, grazie alle Tv private degli anni Ottanta e poi al digitale, ha trovato una crescente nicchia di estimatori sino a entrare nella categoria, se non dei capolavori, sicuramente in quella dei film “da non perdere”. In effetti, insieme al ricordato film di Fellini e allo spagnolo Calle Mayor (1956), di Juan Antonio Bardem, formano un ideale trittico sulla gioventù di provincia europea, uscita dalla Seconda guerra mondiale, sospesa tra sogni irrealizzabili, delusione esistenziale, e noia.
Lina Wertmüller legherà la sua fortuna al botteghino grazie a delle inconsuete commedie che dissacravano la piccola e media borghesia, in cui si esaltava il lato naïf del semplice lavoratore, intrecci da vaudeville, dalla affilata satira di costume. Immancabile un filo di graffiante critica social-politica, ma che, questo forse il limite, seguiva il mainstream del politicamente corretto. Presso il largo pubblico divenne subito la regista dei film “dai lunghi titoli”, essendo più facile ricordarli che il suo cognome. Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974); La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia (1978); Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedovo. Si sospettano moventi politici (1978); Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica (1996). Titoli chiamati a citare ironicamente quelli dei rotocalchi popolar-scandalistici, nei quali è chiara la critica verso una informazione spazzatura che la Wertmüller portò per prima al cinema.
Il personaggio attoriale intorno a cui sono costruite quasi tutte le storie della neo-commedia wertmülleriana anni Settanta, è Giancarlo Giannini, che con l’indimenticabile Pasqualino Settebellezze (1975) si affermava come attore di spessore, versatile, da alcuni soprannominato “l’Alain Delon italiano”.
A metà degli anni Settanta le parrucchiere, i metalmeccanici, i muratori, i meccanici, i baristi, i “banchisti” dei mercati rionali, andavano a vedere Pasqualino Settebellezze (1975). Ricordo file interminabili. Gli intellettuali, gli artisti, gli studenti universitari, gremivano le sale in cui si proiettavano film di impegno sociale, sia storici che attuali: Gruppo di famiglia in un interno (1974, Luchino Visconti); Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1975, Elio Petri); Novecento I e II (1976, Bernardo Bertolucci); Cadaveri eccellenti (1976, Francesco Rosi).
La satira umoristica e allusivamente sexy della Wertmüller sembrava non attecchire nei gusti degli intellettuali che, se sceglievano l’umorismo, optavano per quello malinconico-esistenziale di C’eravamo tanto amati (1974, Ettore Scola) o quello malinconico-ridanciano di Amici miei (1975, Mario Monicelli).
Stranamente questi film una volta proiettati (sottotitolati) in Usa ottenevano un successo strepitoso. Tale che Lina Wertmüller non solo fu la prima regista donna (lo sanno tutti) ad esser candidata agli Oscar per Pasqualino Settebellezze, ma subito si aprirono le università americane e canadesi, gli inviti si rincorrevano.
Nel 1987, ebbi la fortuna di intervistare Lina Wertmüller per il quotidiano ligure Il Lavoro, con il quale collaboravo. Ella, mi attendeva nel suo appartamento che si apriva, con un balconcino vagamente rococò, su Piazza del Popolo, a Roma. Era un pomeriggio di sole di un delizioso settembre. Non solo mi offerse del thè e dei biscottini artigianali, ma mi spiegò il motivo di quelle targhe e premi che aveva nelle vetrine del salottino, e che subito mi attirarono non appena entrato. Provenivano da diverse università americane. Ricordo le sue parole. “In America i miei film li studiano, si scrivono tesi di laurea. Sono stata invitata più volte a parlare del mio cinema davanti a studenti e professori di prestigiose università”. Poi con lo sguardo ironico dietro gli occhialetti dalla montatura bianca, e un sorriso un po’ obliquo, quasi a schernirsi, aggiunse: “In Italia morirò dimenticata”.