Un saggio di La Civiltà Cattolica firmato da padre Federico Lombardi ripercorre i 40 anni del Centro Astalli, la sezione italiana del Servizio dei Gesuiti ai rifugiati. Momento di profonda riflessione sul perché nessuno si salva da solo, dal virus ma non solo
Questo tempo pandemico ha posto con evidenza una questione: “Nessuno si salva da solo”. È la lezione della variante Omicron, che riporta in forme nuove i timori che si pensavano superati con una sorta di protezionismo vaccinale per cui ognuno poteva pensare per sé. Ma se in tempi lontani i virus viaggiavano con lentezza da un capo all’altro del mondo, ma alla fine arrivavano, oggi impiegano poche ore ad attraversare gli oceani: sembra quasi che viaggino in business class per la freschezza con cui giungono all’altro capo del mondo.
Chiudiamo gli scambi? Sospendiamo i commerci? O ci salviamo insieme? La lezione pandemica ha cominciato a svegliarci dal sonno individualista quando abbiamo capito che il vaccino non avrebbe salvato il singolo vaccinato, ma la collettività vaccinata. Fermi all’idea che la collettività si formi nei confini di ogni singolo Stato-nazione, quasi che il virus debba esibire i documenti d’identità per varcare i confini, siamo caduti in una sorta di sovranismo vaccinale. “Che ci frega degli altri? Pensiamo a noi, se non basta pensare a me solo!”. Più o meno è andata così. E non siamo usciti migliori. Ma siccome c’è sempre tempo per recuperare, la variante Omicron è venuta a spiegarci che davvero “nessuno si salva da solo”, come disse Francesco a San Pietro, davanti a quel crocifisso che molti si sono lagnati che fosse stato esposto alle intemperie e alla pioggia, quasi che Cristo sia un’opera d’arte da tenere dentro le teche e non un compagno di viaggio dell’umanità. Non serviva a fare miracoli, ma a rinsaldare il vincolo di fratellanza, anche sotto il diluvio.
Ponendosi davanti a noi la lezione evidente che “nessuno si salva da solo”, emerge evidente la domanda di come si salvino i poveri. Sono tempi nei quali per i poveri le strade si fanno più impervie, le scarpe più strette, il freddo più pungente, la pioggia battente. Possiamo salvarci senza di loro? No. Dalla pandemia, ma non solo da questa. Anche la nostra civiltà, se li esclude, va a picco. Non potremo diventare una società di buoni samaritani, ma capire che lasciare un moribondo per strada senza soccorso mi rende incivile, non migliore, anche se a morire sarà lui. Perché poi arriva un imprevisto e la stessa circostanza potrà riguardare anche me. Ecco allora che la lezione pandemica la potremmo capire così: non esistono egoismo e altruismo, ma un modo avveduto e uno sprovveduto di essere egoisti. Perché il mio ego non può cominciare e finire con me ed in me.
Salvarsi oggi dunque richiede guardare al di là del proprio naso, a chi ci vive intorno, a chi ha più difficoltà di noi. Ma per farlo non si possono chiedere i documenti d’identità alla civiltà, non si può pensare, come per il virus, che si possa vivere civilmente circondati dall’inciviltà. Ecco allora che diviene importante quanto ha scritto su La Civiltà Cattolica padre Federico Lombardi in occasione dei 40 anni del Centro Astalli, la sezione italiana del Servizio dei Gesuiti ai rifugiati. Il suo saggio ripercorre la storia del Centro Astalli da quando, scosso dai boat people vietnamiti, volle fondare questo servizio decisivo in tutto il mondo.
Aveva capito che non era un’onda anomala quella vietnamita, ma un avviso. Ma per farlo parte da oggi, da quanto accade oggi e raccontano i profughi ospitati dal Centro Astalli. Serve un po’ di pazienza per leggere l’inizio del suo saggio avvincente: “Ho passato tre anni nelle carceri sudanesi. Se chiudo gli occhi, mi tornano in mente solo il buio e il silenzio. Il tempo sembrava non passare mai… Dopo tre anni passati rinchiuso in Sudan credevo di essere pronto ad affrontare anche le carceri libiche. Ma, credimi, nessuno può mai essere pronto per quelle… Ci hanno ributtato in cella…, non ho mai visto tanta violenza tutta insieme. Non riesco a trovare le parole. Ma a toglierti il respiro non è tanto quello che subisci in prima persona. Se sei un uomo, bene o male riesci a cavartela. È ciò che vedi e ascolti intorno a te. Sono gli sguardi e le urla delle donne. Non sai quanto ho rimpianto il silenzio e l’oscurità che in Sudan rischiavano di farmi impazzire! In Libia ho imparato che ci sono uomini che di umano non hanno proprio niente”.
E prosegue: “Ho conosciuto le carceri di Kufra e Misratah, dove sono stata reclusa per mesi. Sono posti allucinanti, di tortura e di violenza, dove non hai scampo. Eravamo decine e decine di donne tutte ammassate in una stanza piccolissima, ti offrivano la possibilità di farti la doccia con l’unico scopo di poter abusare di te. Le mie vicine di cella passavano le ore a cancellare da mani e piedi le impronte digitali, si strofinavano sui polpastrelli una sostanza chimica che avrebbe impedito qualsiasi tipo di riconoscimento una volta giunte in Europa. Del gruppetto di ragazze di cui facevo parte fui l’unica a rimanere ancora in carcere perché senza soldi. Le altre, corrotte le guardie, erano riuscite a scappare. Seppi mesi dopo che l’imbarcazione su cui viaggiavano insieme era naufragata con tutti i suoi passeggeri. I loro sogni erano svaniti, così come le loro impronte mesi prima. Cancellati dal mare”.
Siccome quello libico, con la sua guardia costiera, è un sistema che noi, Italia ed Europa, sosteniamo e aiutiamo, bisogna capire bene le conseguenze non per loro, ma per noi, di tutto questo. Perché nessuno si salva da solo, dal virus ma non solo.