La visita annuale a Bamako è stata annullata dall’Eliseo sia perché la variante Omicron corre nella diffusione, ma anche perché per Parigi le attività nel Sahel stanno diventando imbarazzanti e non è il momento di stringere la mano ai golpisti maliani
Il presidente francese, Emmanuel Macron, non andrà in Mali nei prossimi giorni: decisione dell’ultimo minuto legata formalmente all’aumento dei casi Covid legato alla variante Omicron. Ma dietro alla scelta di Monsieur le president di far saltare l’annuale visita di Natale al contingente militare schierato dalla Republique nel Sahel ci sono altri fattori – forse più problematici.
Innanzitutto un nome, Assimi Goita, colonnello bis-golpista che guida la giunta militare maliana. Incontrarlo era inevitabile, ma per Macron un faccia a faccia con colui che ha preso il controllo del Paese con la forza non sarebbe stato troppo lusinghiero. Un contingente militare francese è presente in Mali dall’inizio del 2013, quando aiutò Bamako a non finire in mano a gruppi separatisti e jiahidisti.
La missione si chiamava “Serval”, ha raggiunto il suo obiettivo e poi è stata rapidamente allargata (arrivata fino a un massimo di 8mila unità) sotto l’identificativo “Barkhane”, con l’obiettivo di aiutare il Mali e contemporaneamente tutto il Sahel. Parigi raccontava l’impegno — anche alla propria opinione pubblica — come una necessità sia per assistere quei Paesi a raggiungere una condizione di sicurezza sufficiente, sia per evitare che dai gruppi armati saheliani schizzassero schegge in Europa (ossia in Francia, dove Macron ha identificato nella lotta al radicalismo e al separatismo una necessità strategica, dunque legata al futuro, per il proprio Paese).
A distanza di otto anni, non è un azzardo dire che questa operazione, fatta di azioni dirette, addestramento e capacity building, è sostanzialmente fallita. Il Sahel non solo è ancora cuore di gruppi armati e milizie radicali (tra cui quelle connesse allo Stato islamico che stanno crescendo di importanza, numerica e narrativa), ma i Paesi che lo compongono continuano a soffrire crisi istituzionali enormi. Crisi che rendono complicatissima la costruzione di un quadro securitario adeguato: in Mali c’è stato un colpo di Stato a maggio (il secondo in poco più di anno, dopo quello di agosto 2020); in Ciad, hub dell’impegno militare francese, c’è stato un colpo di Stato ad aprile.
Non il massimo per una campagna militare che si porta dietro il 76 per cento delle spese per missioni all’estero francesi, costa un milione di euro al giorno, ha portato alla morte di 53 soldati francesi e ha usurato mezzi su mezzi (con i sistemi intasati dalla sabbia) e causato liti tra istituzioni (una memorabile quella tra Macron e il generale Pierre de Villiers, ex capo di Stato maggiore). Situazione che da tempo ha iniziato a provocare diversi malumori tra l’opinione pubblica: malumori che adesso, in vista delle presidenziali, vanno ascoltati e curati. La necessità di un ritiro parziale e di una rimodulazione totale dell’impegno è emersa come necessità politica.
Nei giorni scorsi la Francia ha comunicato la decisione di terminare ufficialmente “entro giugno” la missione Barkhane, e nell’annuncio dell’Eliseo c’è tutto il nervosismo che Macron cova da tempo. Il capo di Stato francese accusa i governi saheliani di continuare a collaborare con i gruppi islamisti, di non voler stabilizzare la situazione, di non collaborare sostanzialmente. E forse ci sono da aggiungere le informazioni (anche queste non nuove) sull’accordo in costruzione tra i golpisti di Bamako e la società della guerra privata russa Wagner – contro cui la Francia ha lavorato per smuovere le sanzioni europee.
La Francia lascia la base di Timbuktu in un momento delicato. Non è chiaro cosa ne sarà degli attuali 5mila operativi presenti sul campo: in parte rientreranno, in parte riposizionati e inglobati direttamente in quella missione internazionale di cui il presidente francese ha parlato come sostituzione di Barkhane. Nell’area, basata proprio in Mali, è attiva da qualche mese la Task Force Takuba, missione multilaterale a cui partecipa anche l’Italia con compiti di consulenza, assistenza e mentorship alle FA maliane nella lotta al terrorismo fino a quando queste non saranno in grado di operare autonomamente; e con un’area di operazione individuata ad est del fiume Niger, nella zona dei “tre confini” (Mali, Niger, Burkina Faso) chiamata Liptako-Gourma.
Questa rimodulazione era prevista, perché da almeno due anni Parigi cerca una exit strategy. Il punto è che ad oggi, le relazioni franco-africane sono molto diverse da come lo erano anni fa, ed è la stessa vicenda dell’ingresso della Wagner – ma anche chiaramente i golpe – a raccontare come la Francia stia vedendosi erosa la propria capacità di influenza. Ossia raccoglie frutti opposti ai semi gettati con l’avvio delle operazioni nel 2013.
Per esempio, i golpisti maliani non solo non vogliono tornare indietro sull’intesa con i contractor russi, ma non sembrano nemmeno interessati ad ascoltare Parigi quando chiede di posticipare le elezioni (a rischio farsa) che loro hanno programmato per il febbraio 2022.
Di più: due settimane fa in Burkhina Faso, altra parte della Françafrique e spazio delle attività francesi nel Sahel, un convoglio francese è stato bloccato dai cittadini. Protestavano per la presenza di quei militari nel Paese, in un contesto di sicurezza non certo eccezionale se si tiene conto che la scorsa settimana il primo ministro è stato sfiduciato per via della enorme diffusione delle violenze (vale la pane ricordare che Ouagadougou aveva inviato truppe a combattere con i francesi contro gli islamisti maliani nel 2013).
Qualcosa di simile contro i militari di Barkhane era già successo in Niger: cittadini che protestavano contro un altro convoglio francese accusando i militari di non essere stati in grado di contenere la diffusione dei gruppi terroristici (nelle proteste ci sono stati due morti e 18 feriti). Il Niger è il Paese che Parigi avrebbe scelto per posizionare i militari in uscita dal Mali. C’è un contrasto in corso tra un’attività militare che va e andrà avanti e una relazione politica e sociale diventata più complicata.
Nel 2013 i francesi venivano accolti dalla popolazione di Timbuktu come liberatori, ora a distanza di otto anni lasciano il campo con una situazione quasi più complessa di quella che avevano trovato, senza una soluzione e con violenze e insicurezza che stanno crescendo di intensità e dimensione.