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La pandemia stanca, il Natale (forse) meno. La riflessione di D’Ambrosio

Non siamo nelle ristrettezze dell’anno scorso, ma ciò non basta per fare un Natale migliore, cristiano o laico che sia. Ci vuole di più: ci vogliono significati forti e solidi, altrimenti la pandemia stanca molto, quasi ci collassa. Forse questi giorni di festa, con un po’ di silenzio e di calma, potrebbero aiutare un po’ a ritrovare significati

La pandemia stanca. Un po’ come nel “Lavorare stanca” di Cesare Pavese: dalla solitudine necessaria dell’anno scorso a una ripresa di relazioni in questi giorni, tra timori e tremori per una pandemia che tarda a finire. E stanca. Porta stanchezza alla nostra interiorità, alle relazioni, al lavoro e anche alla fede, o a quanto di più intimo ci può essere. E molti, credenti e non, vorrebbero non solo una festa di relax e di pace, ma anche (ri)trovare un significato, un senso. Al Natale molti cercano di dare un senso perché sanno che è difficile reggere feste vuote, senza significati, divorate da abitudini logore. Certo: non siamo nelle ristrettezze dell’anno scorso, ma ciò non basta per fare un Natale migliore, cristiano o laico che sia. Ci vuole di più: ci vogliono significati forti e solidi, altrimenti la pandemia stanca molto, quasi ci collassa. Forse questi giorni di festa, con un po’ di silenzio e di calma, potrebbero aiutare un po’ a ritrovare significati.

C’è stanchezza anche a Betlemme, nella grotta dove avvenne il Natale, primo e unico. Le fatiche quotidiane, personali, nelle nostre storie di affetti e di lavoro, di amicizie e di solitudine, di serenità e di dolore, nel presepe, vorremmo nasconderle o condividerle con pochissimi, perché solo chi le vive sa quello che costano, solo chi le soffre ne conosce i dolori, solo chi le gode ne conosce la gioia. Sono le stanchezze a dire quale è la misura giusta della festa, per far brillare il presepe di luce sana e serena. Sono le stanchezze che difendiamo con passione e che vorremmo custodite e rinvigorite dal presepe. Depositarle in esso e raccoglierne frutti ogni giorno assicura la continuità della festa nel quotidiano, la sottrae alla retorica o alla malinconia, rendendo il Natale semplice quanto sobrio. Ciò che basta.

Mi hanno sempre colpito questi versetti del racconto evangelico: “Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio” (Lc 2,6-7). Hanno in sé un ordine e un monito. La stanchezza – non comune, quasi insopportabile: cercare un alloggio perché avvenga un parto – è detta per ultimo. È quasi una nota a margine: “Lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”. Non è cosi per noi: la stanchezza la diciamo quasi sempre per prima, non solo perché ci pesa, ma perché colpisce di più. Non a caso, mediaticamente, un reportage da quella Betlemme inizierebbe certamente con il riferimento all’albergo senza posti e al rifugio in una stalla. Per l’evangelista è un’altra storia, o meglio c’è un altro ordine. Il fine emerge sovrano: “Si compirono i giorni del parto”. Maria diede alla luce suo figlio, il Figlio, quello per cui Cielo e Terra si sono mossi perché si incarnasse. Questo è il primo punto, è l’essenziale, è quello che dà senso, alle relazioni come alla fatica, di ogni tipo.

L’ha detto bene Emmanuel Mounier: “L’avvenimento sarà il tuo maestro interiore”. È forse, oltre la sfida sanitaria ed economica, la seconda prova di questo lungo periodo pandemico: porsi in ascolto della “lezione” che questa storia ci sta dando; andare a scuola degli eventi e non delle cretinate sui social; ascoltare la propria interiorità e meno il bla-bla-bla circostante. E in ciò c’è un punto di incontro tra il Natale dei cristiani e quello di donne e uomini di altre culture e religioni.

E forse la “lezione” sulla pandemia non è un trattato filosofico, o scientifico, o teologico. È qualcosa di più lieve, quasi impercettibile, che solca il cuore e la mente solo sfiorandoli. È “Senza più peso”, direbbe Giuseppe Ungaretti.

SENZA PIÚ PESO

Per un Iddio che rida come un bimbo,

Tanti gridi di passeri,

Tante danze nei rami,

Un’anima si fa senza più peso,

I prati hanno una tale tenerezza,

Tale pudore negli occhi rivive,

Le mani come foglie

S’incantano nell’aria…

Chi teme più, chi giudica?


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