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Orsi e Draghi. Quel (vecchio) spartito russo del premier

In un passaggio della conferenza stampa di fine anno il premier Mario Draghi dichiara l’impotenza europea di fronte alla Russia, le sanzioni non bastano e la Nato “ha altre priorità”. Uno spartito che stona con la realtà: un esercito russo che minaccia di invadere l’Ucraina e gli allarmi degli 007 americani. Così l’eccesso di pragmatismo può diventare un boomerang

Nella gran cassa del Quirinale tutto il resto è noia. Le parole dedicate allo scontro fra Europa e Russia dal premier Mario Draghi durante la conferenza stampa di fine anno ad esempio sono passate in sordina. In Italia, all’estero no.

In sostanza per il presidente del Consiglio l’Europa può poco e nulla per fermare l’aggressività russa sul fronte Est. Per chi si fosse perso le puntate precedenti: a pochi chilometri dal confine dell’Ucraina sono schierati in assetto di guerra 170mila soldati russi, carri armati e un intero arsenale. “Prevediamo sanzioni che prevedano anche il gas? Abbiamo le capacità di farlo? È il momento giusto? La risposta è no”.

Draghi ha le sue ragioni: l’Ue ha le armi spuntate. Martedì mattina a Gazprom, colosso del gas russo, è bastato chiudere i rubinetti del condotto Yamal-Europe per lasciare a secco la Germania e far schizzare il prezzo del gas sui mercati europei alla cifra monstre di 2mila dollari per metro cubo. Il Gnl americano costa troppo e fermare il Nord Stream 2 può rivelarsi un boomerang in assenza di qualche garanzia.

Non è dunque tanto il merito quanto il metodo delle dichiarazioni dell’inquilino di Palazzo Chigi che suscita qualche dubbio, a partire dal tempismo. Mentre Vladimir Putin accusa l’Ucraina di genocidio e suona ogni giorno i tamburi di guerra e l’intelligence Usa avvisa di un possibile massacro in Est Europa che al confronto farebbe sembrare l’invasione della Crimea una passeggiata di salute, l’uomo “più potente d’Europa” (così lo ha incoronato la rivista Politico) confessa l’impotenza d’Europa.

Ma la politica estera, proprio come i mercati, è fatta anche di segnali. Draghi, che sul whatever it takes ha costruito una legacy, dovrebbe saperlo. Il secondo passaggio all’Auditorium Antonianum di Roma è perfino più esplicito. “Assisteremo nei prossimi giorni a un ulteriore ammassamento delle truppe. Qual è, mi chiedo, il fattore di deterrenza di cui dispone l’Ue? Abbiamo missili? Navi? Cannoni? Eserciti? Al momento no”.

Sarà anche un’uscita realistica, di certo non sarà neutrale. E infatti, mentre in Italia ci si arrovellava sulla quasi-candidatura del premier al Colle, sui media di Stato russi è iniziato il can-can. Sputnik, RT, Tass, Interfax. Homepage intasate al titolo: “Per Draghi l’Ue non è abbastanza forte da imporre sanzioni contro la Russia”. Un assist non male all’altra conferenza stampa di fine anno, quella di Putin nella grande sala del Manehz, a Mosca.

Ora, nessuno può a ragion veduta accusare il presidente del Consiglio di russofilia. Né mettere in discussione la convinta fede euroatlantica di Draghi, ribadita a più riprese da quando è entrato a Palazzo Chigi, senza troppi giri di parole. Il punto semmai è capire perché l’uomo che ha fatto di una comunicazione mirata, misurata, essenziale una micidiale arma politica abbia lanciato un segnale così distensivo, se non arrendevole, in direzione del Cremlino. Segnale che, suo malgrado, rischia appunto di “segnalare” l’Italia sulla mappa degli amici di Putin in un momento in cui un eccesso di cautela non guasterebbe.

Il passaggio russo di Draghi mercoledì sembra ricalcare un vecchio spartito della diplomazia italiana, superato dai tempi e dai fatti. Con qualche piccola stonatura: come quando il presidente sostiene che la Nato oggi ha “priorità strategiche diverse e che guardano al quadrante Indo-Pacifico”. È lo spartito risuonato altre volte in questi primi dieci mesi alla guida del governo in cui Draghi ha mantenuto un filo diretto con il Cremlino dimostrandosi il leader europeo più attivo nel dialogo con Mosca tra deterrenza e cooperazione (ad esempio sul G20 Afghanistan).

Un pragmatismo che ricorre di continuo nell’azione politica del premier e può anche tornare utile al Paese se sfoderato al momento giusto. Ecco, il dubbio rimane questo. È il momento giusto?

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