Skip to main content

Ottant’anni dopo Pearl Harbor. Il lascito del Giorno dell’infamia

Il 7 dicembre di ottant’anni fa l’Impero giapponese attaccava a sorpresa la base aeronavale americana di Pearl Harbor, nelle Hawaii, fornendo agli Stati Uniti il casus belli per entrare ufficialmente nella Seconda guerra mondiale. A otto decenni di distanza Gregory Alegi, docente di History and politics of the Usa all’università Luiss, ci racconta perché quel “Giorno che vivrà nell’infamia” è ancora uno dei simboli più diffusi della coscienza americana

Pearl Harbor è un giorno fondamentale per la storia degli Stati Uniti, non solo perché siano rarissimi gli attacchi al suolo americano, ma per le sue conseguenze. L’attacco a sorpresa giapponese diede, infatti, al presidente Franklin Delano Roosevelt la possibilità di superare definitivamente le posizioni isolazioniste, da sempre prevalenti nella mentalità statunitense e particolarmente intensa dopo la crisi economica del 1929. L’attacco giapponese, in altre parole, consentì a Roosevelt di schierare tutta la forza degli Stati Uniti accanto alla Gran Bretagna, l’ultimo baluardo della democrazia liberale rimasto in un’Europa completamente travolta dalla Germania nazista. Roosevelt lavorava già da oltre un anno al sostegno della Gran Bretagna, ma quel 7 dicembre 1941 aveva praticamente esaurito tutti i mezzi e i trucchi per aggirare le normative che il Congresso aveva adottato negli anni Trenta proprio per tenere gli Usa al di fuori di un altro conflitto mondiale. Come quello alle Torri Gemelle sessant’anni dopo, l’attacco alla base navale alle isole Hawaii fece saltare tutte le cautele del Congresso, dando al presidente una libertà d’azione senza precedenti.

LA LUNGA MARCIA

L’affermazione del regime di Hitler in Europa, con politiche di aggressione territoriale, aveva subito preoccupato Roosevelt, che però si trovava le mani legate dalla crisi economica seguita alla Depressione, e soprattutto dal sentimento isolazionista americano. Nella campagna elettorale del 1940, che vinse aggiudicandosi il terzo mandato, evento unico nella storia americana in quanto proibito nel 1947 dal XXII emendamento, la neutralità era stato uno dei temi politici dominanti. Per sostenere il Regno Unito, che sembrava ormai perduto, Roosevelt adottò una serie di misure che via via riducevano a un fatto poco più che formale la neutralità statunitense. Prima il Cash and carry, che consentiva la vendita di materiali militari purché pagati in contanti e trasportati direttamente dagli acquirenti. Poi lo scambio tra basi navali britanniche e vecchi cacciatorpediniere Usa per rinforzare la Royal Navy in difficoltà. Ancora, la legge Lend-lease (affitti e prestiti) con la quale dall’11 marzo 1941 gli Stati Uniti potevano fornire agli alleati mezzi pagati dal contribuente americano e ancora formalmente di proprietà statunitense. Infine, il graduale ampliamento della scorta ai cargo diretti in Gran Bretagna da parte della marina americana, al punto che il 31 ottobre un U-boot tedesco affondò la USS Reuben James. Mancava soltanto l’entrata ufficiale in guerra, ostacolo che senza un casus belli restava insormontabile. A fornirlo ci pensò Pearl Harbor.

UN’ALTRA GUERRA

Noi osservatori europei tendiamo a dimenticare la crisi altrettanto grave in atto negli anni Trenta in Asia a causa di un espansionismo giapponese non meno forte e aggressivo di quello tedesco. Il Giappone era coinvolto in guerra brutale con la Cina dal 1937, con eventi sanguinosi come la presa di Nanchino, non a caso definita come “stupro di Nanchino”. L’agitazione sul fronte cinese aveva finito per coinvolgere persino l’Unione sovietica, coinvolta in una guerra non dichiarata con il Giappone dal maggio al settembre 1939. In risposta a tutto questo gli Stati Uniti avevano adottato il blocco navale nei confronti del Giappone, la cui economia industriale era basata sull’importazione delle materie prime delle quali il Paese era completamente privo. La pressione esercitata dal blocco avrebbe dovuto, nelle intenzioni Usa, indurre il Giappone a desistere dalla propria espansione. In realtà, Tokyo si alleò con Berlino e Roma prolungando l’Asse, in barba alla geometria ma in assoluta coerenza con la politica espansionistica dei tre regimi. Il blocco funzionò, ma non nel modo immaginato a Washington. Quando il Giappone fu messo alle strette e la sua economia fu messa in difficoltà, l’orgoglio orientale spinse il Paese a una reazione opposta a quella ritenuta razionale dagli occidentali. In altre parole, anziché ritirarsi da gioco il Giappone raddoppiò la posta, immaginando di poter attaccare gli Usa, dare loro una lezione militare, e sfuggire alla eventuale risposta. In questo modo, il Paese del Sol Levante avrebbe potuto mantenere ciò che aveva in quegli anni gradualmente conquistato.

SCALARE IL MONTE NITAKA

È in questo contesto che nacque la scommessa di attaccare la flotta Usa del Pacifico nella propria base principale a Oahu, nelle Hawaii. L’idea era di infliggere un colpo decisivo che potesse rendere impossibile agli Usa di reagire e che li costringesse, se non al tavolo delle trattative, almeno a desistere dal blocco per la semplice mancanza dei mezzi per mantenerlo. Era un piano audace, ispirato in parte allo strabiliante successo che gli aerosiluranti Swordfish inglesi avevano messo a segno a Taranto l’11 novembre 1940 contro la Marina italiana, ma non del tutto inedito. Lo aveva già ipotizzato nel 1925 il britannico Hector Bywater, nel suo romanzo The Great Pacific War. Come nella finzione, anche nella realtà l’attacco riuscì solo nel breve termine. L’ammiraglio Isoroku Yamamoto, che era stato prima della guerra addetto navale presso l’ambasciata Giapponese a Washington, aveva già messo in guardia circa le capacità industriali degli Stati Uniti, e la loro forza nel ricostruire gli eventuali mezzi perduti. La ragione politica portò a superare le sue ragionevoli obiezioni. L’attacco, organizzato e svolto con grande audacia e nella massima segretezza, resta a tutt’oggi un capolavoro di pianificazione militare e un esempio di scuola studiato in tutte le accademie navali del mondo. Gli americani persero 19 navi, tra le quali otto corazzate, e 2.403 uomini, compresi 68 civili.

IL RISVEGLIO DEL GIGANTE

In senso strategico, tuttavia, fu un colossale fallimento. Non solo perché le tre portaerei della flotta del Pacifico, impegnate in manovre in mare, sfuggirono all’attacco per formare sei mesi dopo la spina dorsale della vittoria di Midway, ma soprattutto perché Germania e Italia si sentirono in dovere di dichiarare guerra agli Stati Uniti per solidarietà con l’alleato. Questo trasse Roosevelt d’impaccio, dandogli la possibilità di entrare in guerra contro il suo vero nemico e di conseguire scopi politici ben più ampi di quelli relativi al solo Pacifico. Gli Stati Uniti isolazionisti si trasformarono, secondo la definizione di Roosevelt, nell’arsenale delle democrazie e nella guida del mondo libero. Assunsero, cioè, la direzione militare, politica e simbolica di tutto il mondo, giungendo a stringere alleanze strutturali che durano ancora oggi, come con il Regno Unito, e alleanze di scopo con paesi totalmente diversi, come l’Unione sovietica. Costruirono armamenti convenzionali in quantità prima inimmaginabili e svilupparono tecnologie prima impensabili, dal calcolatore elettronico alla bomba atomica. Alla fine del conflitto, nel 1945, gli ex isolazionisti erano divenuti la prima superpotenza mondiale e l’architrave di un ordine internazionale basato su una rete di organizzazioni, a partire dalle Nazioni Unite, guidate, finanziate e ispirate al modello liberale e democratico. Lo stesso Giappone, sconfitto, fu portato nella sfera occidentale risparmiando, ma solo in senso simbolico, il prestigio dell’autorità imperiale.

DESTINO MANIFESTO

Tutto questo era forse difficile da prevedere quel 7 dicembre 1941, tra gli incendi e le esplosioni delle navi straziate dalle bombe venute dal cielo. L’enormità della scommessa e l’ambizione del piccolo Giappone di sconfiggere il gigante americano erano però prevedibili, almeno nelle loro grandi linee. Spingendosi più in là, si può inoltre ragionevolmente argomentare che la forza degli Stati Uniti si sarebbe comunque trasformata in leadership globale, magari con solo qualche anno di ritardo. In fondo, già nel 1905 un altro Roosevelt, Theodore, aveva negoziato la pace tra russi e giapponesi, ricevendone addirittura il Nobel per la pace. Pochi anni dopo, la Prima guerra mondiale aveva visto le potenze europee rivolgersi agli Stati Uniti per prevalere nel loro conflitto: un coinvolgimento tanto importante da trasformare gli Usa, per la prima volta, in creditore netto mondiale e da consentire a un altro presidente, Woodrow Wilson, di imporre la propria visione idealista sui rapporti internazionali.

Se è dunque lecito pensare che anche senza Pearl Harbor il ruolo degli Stati Uniti nel mondo contemporaneo non sarebbe stato diverso da quello che conosciamo, è certo che l’attacco giapponese fece nascere il ben fondato mito del “Giorno che vivrà nell’infamia”, nel quale una potenza isolata, intenta ancora a risollevarsi dalla crisi economica, era stata brutalmente attaccata senza alcun motivo. In questo senso, il commovente memoriale alla corazzata USS Arizona, ancora adagiata sul fondo a Pearl Harbor, contribuisce a un’autorappresentazione dell’identità americana che dopo otto decenni continua a vivere nella coscienza di cittadini americani di ogni età, estrazione sociale, posizione politica e origine etnica.


×

Iscriviti alla newsletter