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Perché l’Iran fatica a controllare le milizie in Iraq

Il capo dell’unità d’élite dei Pasdaran un mese fa è volato a Baghdad perché la situazione con i gruppi sciiti locali gli sta sfuggendo di mano

L’Iran sta lavorando per raffreddare tensioni in Iraq, dove partiti/milizia sciiti collegati con vari livelli di legami a Teheran rischiano di finire fuori controllo e destabilizzare un Paese la cui importanza nell‘architettura degli equilibri mediorientali è fondamentale — come nei giorni scorsi ha spiegato anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, in visita a Baghdad.

La Repubblica islamica ha facilitato la creazione di quelle entità interne al contesto sociale, economico, politico e militare iracheno e non solo. Lo ha fatto secondo un piano di diffusione di influenza a livello regionale studiato dal defunto capo della Quds Force (l’unità di élite che si occupa delle operazioni all’estero dei Pasdaran), il generale Qassem Soleimani, su cui fluttua un’aurea epica rafforzata dall’uccisione in un attacco aereo assassino americano, avvenuto nel gennaio del 2020 proprio all’aeroporto della capitale irachena.

L’Iraq — come anche la vicenda di Soleimani racconta — ha fatto da sfogo alle tensioni internazionali tra Iran e Stati Uniti, e le milizie sciite ne sono state protagoniste agendo sia su impulso dei Pasdaran (come proxy per compiere lavori sporchi e azione ibride), sia in modo indipendente. Ossia più volte hanno deciso autonomamente sui lanci di Katyuha contro obiettivi sensibili e altre attività di sabotaggio, e questo crea un problema per Teheran. Se la situazione sfugge dal controllo è un disastro: perché il rischio è che chi subisce quegli attacchi (gli americani come gli israeliani) potrebbero considerare responsabile l’Iran; perché se devono essere vettori di influenza allora le milizie non possono prendersi certe autonomie (altrimenti dimostrano che chi vorrebbe usarle è indebolito proprio dalla incapacità di gestirle).

Secondo le informazioni raccolte in un lungo reportage della Reuters, qualche mese fa si è consumato uno degli episodi di confronto più duro tra milizie e iraniani. Il capo delle Quds, Esmail Ghaani (successore di Soleimani), è volato di corsa a Baghdad dopo che la casa del primo ministro iracheno, Mustapha Khadimiera stata colpita da tre razzi lanciati dalle milizie locali che non accetta(va)no i risultati delle recenti elezioni. Ghaani aveva incontrato alcuni alti esponenti politici e comandanti miliziani con un messaggio chiaro: accettate ciò che è uscito dalle urne.

Khadimi non è asservito al sistema mafioso con cui le milizie controllo a il territorio e si muovono come uno Stato nello Stato, e per questo non piace ai gruppi eredi di coloro che infiammavano la rivoluzione settaria e compivano attacchi terroristici contro le forze di occupazione occidentale durante la Guerra d’Iraq. Alcune milizie lo considerano un pericolo non solo per queste posizioni, ma anche perché le compagini politiche che lo sostengono sono uscite rafforzate dalle violazioni. Tra queste la Sadr Organization di Moqtada al Sadr, un tempo miliziano incallito e spietato, ora redento sulla via del populismo e degli interessi che grazie al consenso può far valere. Le milizie indebolite reagiscono con la più comoda e diretta arma a disposizione: la violenza.

Ghaani, spiegano fonti informate alla Reuters, ha rimproverato i suoi interlocutori preoccupato che questioni da “piccola politica” rischiano di erodere il consenso di cui le formazioni radicali sciite godono — e questo rischia di erodere a sua volta la capacità di influenza dell’Iran. I presupposti ci sono: c’è una buona fetta di popolazione irachena che non tollera più i partiti/milizia, le loro abitudini, il collegamenti con gli iraniani (Sadr ha guadagnato consenso anche cavalcando questo sentimento, rinnegando il proprio passato). L’Iran teme di perdere capacità di azione e di vedere parti del suo blocco che si scontrano tra loro; Sadr ora è molto critico con Teheran, ma è un chierico sciita che comunque mantiene collegamenti con parti dell’establishment della teocrazia. In più c’è il problema Ghaani, che sta lavorando molto sul consolidare il rapporto con le milizie, perché a differenza del suo predecessore non ha quel feeling e quell’appeal, e rischia di essere un leader non rispettato (contribuendo alla perdita della capacità di influenza iraniana).

Un altro rischio è che queste tensioni che si stanno creando all’interno all’Iraq producano situazioni di intralcio nei delicatissimi negoziati che la presidenza di Ebrahim Raisi sembra intenzionata a portare avanti sul Jcpoa. Nonostante infatti Raisi incarni posizioni conservatrici, sembra intenzionato a negoziare in qualche modo per ricomporre l’accordo sul nucleare — su cui la pazienza degli interlocutori si sta esaurendo. Quanto accade in Iraq tocca uno dei temi che galleggiano attorno ai negoziati atomici: la politica regionale (leggi: le milizie) dell’Iran. Le vicende irachene spiegano che non c’è solo il rischio connesso a questa influenza velenosa (basata su milizie jihadiste sciite poi trasformate in partiti), ma anche quello legato alla trasformazione di queste in schegge litigiose incontrollabili.

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