Al via il dibattimento sul caso di Charles Lieber, pioniere delle nanotecnologie, accusato di aver mentito sui suoi rapporti con l’Università di Wuhan. Ma, tra accuse di maccartismo e assoluzioni, la China Initiative lanciata da Trump e proseguita da Biden per fronteggiare lo spionaggio economico di Pechino ha bisogno di una riforma, dicono molti esperti
Inizia oggi (mercoledì 15 dicembre, ndr), con le dichiarazioni di apertura di accusa e difesa alla giuria selezionata ieri, il processo a Boston contro Charles Lieber. Considerato un pioniere delle nanoscienze e delle nanotecnologie, il professore di Harvard, già a capo del Dipartimento di chimica e biologia, è stato arrestato delle autorità statunitensi a inizio del 2020. È stato lui, 62 anni, a chiedere qualche mese fa alla giustizia americana di far presto, dopo aver scoperto un linfoma.
L’accusa principale è di aver reso false dichiarazioni al dipartimento della Difesa e all’ateneo sulla sua partecipazione a un programma del governo cinese dedicato ai talenti nei campi della ricerca scientifica, dell’innovazione e dell’imprenditorialità e ritenuto da Washington una minaccia alla sicurezza nazionale in quanto utilizzato anche come programma di reclutamento. A questa, si aggiunge l’accusa di non aver dichiarato al fisco americano i compensi ricevuti: secondo gli inquirenti, 50.000 dollari al mese dalla Wuhan University of Technology, fino a 158.000 in spese di soggiorno e più di 1,5 milioni di dollari in sovvenzioni per creare un laboratorio di ricerca presso l’università cinese. In cambio, dicono i procuratori, Lieber avrebbe accettato di pubblicare articoli, di organizzare conferenze internazionali e di richiedere brevetti per conto dell’università cinese. Non è accusato di aver trasferito illegalmente qualsiasi tecnologia o informazioni sensibili alla Cina.
Il professore si è dichiarato non colpevole per tutti i sei capi d’imputazione.
Secondo la Procura, però, è dal 2011 uno “scienziato strategico” per l’ateneo di Wuhan. A inchiodarlo sarebbero alcune mail. In una di queste, Lieber scrive a un suo collega due giorni dopo il suo colloquio con gli agenti del dipartimento della Difesa: “Starò attento a ciò che discuto con l’Università di Harvard, e niente di questo sarà condiviso con gli investigatori del governo in questo momento”. Sarebbe la dimostrazione del fatto che il professore era cosciente di star ingannando il governo degli Stati Uniti.
Il processo avrà inevitabili ripercussioni sul dibattito negli Stati Uniti e sul rapporto di questi con la Cina. Da una parte c’è chi parla di caccia alle streghe e maccartismo alla luce della China Initiative lanciata dal dipartimento della Giustizia nel 2018 durante l’amministrazione di Donald Trump: un gruppo di professori ha chiesto al procuratore generale degli Stati Uniti di interrompere il processo in quanto comprometterebbe la competitività del Paese nella ricerca e nella tecnologia e metterebbe di mira ingiustificatamente i ricercatori cinesi. Dall’altra c’è l’impegno del governo statunitense, continuato anche con Joe Biden alla Casa Bianca, – e non soltanto di quello statunitense – a fronteggiare la sfida a 360° gradi provenente dalla Cina.
Sulla China Initiative iniziano, però, a emergere dei dubbi dopo che il primo processo, con al centro Anming Hu, ricercatore della Nasa e professore all’Università del Tennessee, si è concluso con un annullamento e poi con un’assoluzione. Il giudice federale che ha assolto il professor Hu spiegando che le regole sui premi alla ricerca sono confuse e l’accusa non hanno fornito alcuna prova che delle intenzioni di di nascondere informazioni alla Nasa. Inoltre, quest’anno i procuratori hanno lasciato cadere le accuse contro altri sei ricercatori.
La China Initiative “si è trasformata in qualcosa di molto lontano da quello che era inizialmente”, ha dichiarato John Hemann, ex vice procuratore degli Stati Uniti a San Francisco che ha lavorato su uno dei primi casi della “China Initiative”, a Bloomberg. “È un problema politico e un problema economico, non un problema da risolvere con procedimenti penali”.
Ancora più dure le parole di Andrew Lelling, ex procuratore degli Stati Uniti per il Massachusetts, uno dei primi a lavorare alla China Initiative e a capo dell’ufficio che ha mosso le accuse contro Lieber. Secondo lui, oggi tornato alla libera professione, l’iniziativa “è andata alla deriva” e “ha perso il suo obiettivo”, ha scritto su LinkedIn. “Ha bisogno di una riforma” rinnovando e chiudendo alcune parti del programma “per evitare di soffocare inutilmente le collaborazioni scientifiche e commerciali con i partner cinesi”.
“C’era una preoccupazione diffusa che il governo cinese stesse usando le collaborazioni di ricerca per dirottare la tecnologia degli Stati Uniti, quindi i ricercatori che non hanno rivelato le loro connessioni con la Cina ai finanziatori statunitensi erano preoccupati”, ha detto all’Associated Press. “Se il governo degli Stati Uniti non conosce la portata della collaborazione di ricerca degli Stati Uniti con la Cina, non può sviluppare correttamente la politica in quell’area”. In sintesi: il deterrente c’è stato ma non con i risultati sperati, ha detto.
“Posso assicurarvi che i casi non saranno perseguiti sulla base della discriminazione, ma solo sui fatti”, aveva spiegato nelle scorse settimane il procuratore generale Merrick Garland dopo il caso del Tennessee. In ogni caso, il dipartimento di Stato dovrebbe completare nelle prossime una review sul contrasto delle minacce poste dalla Cina, come spiegato dal portavoce Wyn Hornbuckle.