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I tre sindacati rappresentano ancora il Paese nel “next normal”?

Esistono 900 contratti collettivi, centinaia di associazioni che riuniscono lavoratori, volontari, categorie, consumatori, interessi, culture. Eppure il governo continua a riporre fiducia solo in tre sigle, mai davvero “pesate” e pure divise tra loro

La battaglia delle percentuali dopo uno sciopero ha lo stesso mediocre fascino dei sondaggi pre-elettorali. Con una differenza: mentre dopo i sondaggi ci sono le urne, a sancire la realtà; dopo i numeri emessi per misurare le adesioni agli scioperi, non c’è nessuna verifica reale sulla rappresentatività sindacale.

È uno dei nodi irrisolti della nostra democrazia, come l’articolo 39 della Costituzione è uno degli incompiuti della nostra recente storia repubblicana. Ciononostante, la retorica del mainstream resiste ai turbinosi cambiamenti della società e della politica. E continua a cristallizzare il ruolo delle organizzazioni sindacali intorno a quello, pur nobilissimo ma sempre meno esauriente, delle tre confederazioni Cgil, Cisl, Uil. La “società civile” – una volta si sarebbe detto così – si è trasformata, anche (e forse soprattutto) nelle organizzazioni del lavoro. Un mutamento ancora in atto, tanto che si preferisce parlare di un “next normal” piuttosto che di un “new normal”, a indicare che il nuovo definitivo è ancora lungi dall’essere visibile dopo la pandemia e i carichi di novità che si sta portando appresso.

La rappresentanza tradizionale dei lavoratori – ma lo stesso vale per le imprese – nelle organizzazioni sindacali (e anche datoriali) che abbiamo imparato a conoscere nel dopoguerra è stata stravolta. Non solo per la proliferazione delle sigle, né solo per quella dei contratti collettivi di lavoro, ormai più di 900. Se le tecnologie digitali hanno favorito l’ebbrezza dell’uno vale uno, vuol dire che ogni processo di intermediazione deve essere verificato e aggiornato. Vale per la politica, per i partiti, ma anche per sindacati dei lavoratori e per le rappresentanze datoriali.

Partiti e sindacati invece danno l’idea, spesso, di essere come due ciechi che si vogliono sorreggere a vicenda. L’ennesima convocazione delle tre confederazioni (Cgil, Cisl e Uil) da parte del Governo per discutere di pensioni (e non solo, probabilmente, ma di una parte dell’impianto della prossima Legge di Stabilità) ripropone questa rituale cecità. Aggravata dallo sciopero generale (quasi generale, se proclamato da due confederazioni su tre, con esclusione di scuola e sanità) che ha sancito la fine della presunta unità sindacale, costruita attorno a tre organizzazioni che contano, insieme, circa 5,5 milioni di tesserati tra i lavoratori attivi, meno di un quarto dell’intera forza lavoro del Paese.

In attesa di una legge sulla rappresentanza – inclusa tra le priorità che molti Governi si sono dati (prima e dopo l’accordo Interconfederale del 2014) – sarebbe auspicabile che si definissero meglio i nebulosi confini della materia, visto che si insiste nell’affidare alle organizzazioni esistenti un ruolo mai verificato. Nell’ultima audizione parlamentare sul tema della rappresentanza sindacale il Cnel ha espresso un orientamento positivo “rispetto all’adozione di uno strumento legislativo che, pur facendo riferimento ad accordi fra le parti, promuova la definizione di criteri stabili e oggettivi di riferimento. Un intervento normativo avrebbe l’effetto di superare le note incertezze derivanti dalla giurisprudenza che, nel corso del tempo, si è esercitata su una pluralità di indici”.

Ma ancora non s’è visto nulla. E solo a parlarne si rischia di essere tacciati come provocatori illiberali. Il problema politico – come ricevere tre sigle che sono state divergenti nella valutazione dei precedenti incontri, al punto da dividersi sullo sciopero – riguarda i politici. Il problema normativo riguarda la vita di tutti. La cooptazione di alcune organizzazioni, invece di altre, al confronto con il Governo in base a cosa di sostanzia? Su dati quantitativi che non ci sono? Su qualità morali che non sono certo esclusive dei sindacati?

Perché non convocare la Caritas o la Comunità di sant’Egidio per discutere sulla fiscalità da applicare ai meno abbienti? Non è una provocazione. Poco più di un anno fa proprio il Cnel (con Ipsos, Astrid e con la Fondazione per la Sussidiarietà) aveva comunicato l’esito di una indagine sui corpi intermedi. Il 70% degli italiani considerava il ruolo dei corpi intermedi importante per uscire dall’emergenza sanitaria e nella fase di ripartenza del Paese. La fiducia maggiore veniva riposta nelle associazioni di volontariato (72%) seguite dalle associazioni di tutela dei consumatori (61%) e nelle fondazioni culturali (58%).

Il presidente del Cnel, Tiziano Treu, disse allora che “la grave crisi sanitaria ci ha fatto comprendere che la società non può fare a meno dei corpi intermedi, sindacati, associazioni di categoria, rappresentanza di interessi e soprattutto del Terzo settore, il cui ruolo e funzione escono rafforzati”. Una pluralità di soggetti che animano la vita sociale del Paese. E invece il Governo continua a riporre la fiducia solo nel confronto con tre sigle sindacali, mai chiaramente “pesate”, e peraltro divise tra loro.


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