In Somalia la crisi istituzionale raggiunge il massimo livello di tensione e divisione. Il rischio è che riparta la macchina della violenze e che gruppi di interesse economico sfruttino la situazione e il caos collegato per proprio vantaggio
Il governo somalo parla di tentativo di golpe, il presidente di una mossa necessaria per evitare che il primo ministro inquini le indagini di corruzione a suo carico. Quando nel pomeriggio del 26 dicembre il capo dello stato, Mohamed Abdullahi Mohamed, noto come Farmajo, ha tolto l’incarico al premier Mohamed Hussein Roble, a Mogadiscio s’è toccato il picco delle tensioni tra i due centri istituzionali. Tensioni che hanno caratterizzato tutto il 2021 per la Somalia, e che già ad aprile erano sfociate in scontri violentissimi tra opposte fazione.
Famarjao e Roble si accusano di essere responsabili dell’instabilità politica (e dunque economica e sociale) che affligge da mesi il Paese. A febbraio il presidente ha rimandato le elezioni parlamentari e prolungato unilateralmente il proprio mandato; il parlamento eletto avrebbe infatti dovuto votare a sua volta il nuovo capo dello stato. Famarjao si è arroccato attorno al suo potere, dando dimostrazione anche in questa occasione di come in diversi Paesi dell’Africa gli equilibri istituzionali siano ancora immaturi e soggetti a diverse criticità.
In primavera c’era stato uno spiraglio, il presidente e il primo ministro avevano trovato un accordo apparente per organizzare un percorso elettorale e fermare i disordini. A distanza di otto mesi le tensioni sono tornate, e con loro i blindati in strada e le accuse di “golpe indiretto”, così l’ha definito il ministro della Difesa.
Una situazione critica che si aggiunge ad altre criticità che hanno colpito la regione allargata che scende dal Nord Africa verso il Sahel e si prolunga sul Corno d’Africa. Mali, Ciad, Sudan, Etiopia, Somalia, e ancora Libia, Tunisia, Burkina Faso sono tutti paesi in cui nel 2021 (e anche prima) si sono verificati disordini istituzionali in mezzo a crisi economiche (umanitarie) molto gravi, e dove le vicende interne hanno contribuito a destabilizzazioni di carattere più ampio.
Nonostante l’apparenza di un’evoluzione politica caratterizzata dalla volontà di completare il processo elettorale, le tensioni e i contrasti tra le due figure istituzionali non sono diminuite nel corso dei mesi, aumentando anzi d’intensità nel corso delle ultime settimane, spiega Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies.
“Adesso lo scenario che ci troviamo davanti è la possibilità di una nuova escalation di violenza, ricordando che la dimensione di crisi di mesi fa è stata molto più forte di quanto non si sia stata avvertito in Europa, con 600 mila persone costrette a lasciare le case nella capitale. Quello che vediamo adesso è un quadro identico al precedente, con rischi anche peggiori”, spiega Pedde a Formiche.net.
Farmajo, fa notare l’analista, sta facendo di tutto per complicare il processo elettorale, “una figura arrivata all’epoca della sua nomina con grandi speranze e che si è rivelata molto deludente”, commenta Pedde; Roble, con tutti i limiti dei politici somali, sta facendo il possibile, “e non può vedersi imputato il peso dell’insuccesso del voto”).
Secondo l’esperto italiano, la sospensione del primo ministro è “una mossa azzardata”, anche perché buona parte dell’apparato di sicurezza si è subito schierato con il primo ministro: il vero rischio è che queste divisioni per gruppi di potere e di interesse sfocino in nuovi scontri, perché la Somalia ha degli equilibri molto precari e se parte la macchina della valenza è poi difficile fermarla.
Che cosa accadrà? “Riaprire il vaso di Pandora di un conflitto interno non dovrebbe essere nell’interesse di Farmajo, ma il rischio è che gruppi clanici e soprattutto gruppi di interesse economico che bypassano i clan, possano vedere questa crisi come un’opportunità e sfruttarla a proprio vantaggio”. Risponde Pedde.
Anche per questo gli Stati Uniti hanno mandato un messaggio molto chiaro attraverso l’ambasciata: hanno criticato Farmajo per i ritardi nel voto e per la decisione contro Roble, hanno ufficialmente invitato il governo somalo a completare il percorso elettorale, essendo trascorsa la scadenza inizialmente fissata per la scorsa settimana (24 dicembre), mentre solo il 10 per cento dei deputati della Camera Bassa è stato eletto.
La posizione americana conta perché sono il primo donor del Paese e supportano sia la sicurezza che lo sviluppo somalo. Val la pena ricordare che il Paese è in guerra contro al Shabaab, un gruppo jihadista che da anni compie attentati e cerca di intestarsi un controllo territoriale.
C’è poi il peso degli interessi esterni, che Pedde definisce “abbastanza ibridi e non rispondono a logiche che si vedono su altri teatri”. Un ruolo predominante ce l’ha la Turchia, che in Somalia ha un’enorme base militare (che controlla la refluirebbe del Corno d’Africa) e ha una serie di interessi molto radicati: “I turchi – continua Pedde – sono l’attore principale in Somalia, sia politicamente che in termini di soft power, attraverso cui sono riusciti a entrare in dinamiche culturali profonde. I somali ricordano con orgoglio la visita del presidente [Recep Tayyp] Erdogan che aveva passeggiato con la famiglia a Mogadiscio trasmettendo un senso di amicizia e sicurezza che da tempo non si vedeva nel Paese”.
Farmajo (che ha vissuto e lavorato negli, ma che da quando è stato eletto presidente è avvolto dalle dinamiche interne somale) è legato ad alcune componenti della Fratellanza musulmana, e ha una rapporto privilegiato con Qatar e Turchia. Roble è invece più neutrale, in contatto con gli emiratini, e molto più strutturato in termini di cosmopolitismo e relazioni internazionali.