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L’amarcord di Sorrentino, felliniano ma non troppo

“È stata la mano di Dio” (2021) di Paolo Sorrentino è un viaggio di formazione di un giovane che osserva con disincanto un mondo che sta scomparendo e affronta il dolore con maturità. Lo stile allusivo dona al film una magia che rischia però di appannarsi quando la metafora è insistita. Il parere di Eusebio Ciccotti

La massima filosofica che sottende È stata la mano di Dio (2021) di Paolo Sorrentino è che “la realtà è volgare e non è interessante quanto la fantasia”. E nel film si traduce come un chiaro omaggio a Federico Fellini. Una affermazione che Sorrentino affida, come manifesto di estetica, a due personaggi: al regista Antonio Capuano (impietosa, verso una attrice teatrale dilettante, la sua fulminea arrabbiata performance alla Carmelo Bene), e al giovane protagonista Fabietto. Enunciato che parte da lontano, almeno da Aristofane, e giunge sino a noi, diremmo, in “montaggio alternato”, attraverso i secoli, per bocca di centinaia di capolavori. Infatti, la storia della espressione artistica ha sempre percorso due strade, apparentemente parallele e opposte: il realismo (naturalismo, verismo, oggettivismo, neorealismo, ecc.) e il fantastico (per dirla alla Tzevan Todorov) o il surreale.  Con, però, tutte le soluzioni miste, almeno al 7%.

Sorrentino, raccontando una Napoli della sua tarda adolescenza, coincidente storicamente, “esternamente”, per le vie e i balconi della capitale partenopea, con la vittoria dello scudetto del Napoli ad opera anche di Maradona, ci propone un suo “amarcord”, anche come sotterraneo omaggio a quello riminese di Fellini. Un percorso autobiografico giocato sul versante del non-realismo, del magico, dell’allusivo, del deformante, e, appunto, del fantastico.

Fabio, ultimo anno di liceo classico, perde i genitori nella casa di montagna, usata per il fine settimana, a causa d’una fuga di monossido di carbonio dal camino (come accadde ai genitori di Sorrentino). Quella domenica anche il ragazzo avrebbe dovuto seguire i genitori, in Abruzzo. Ma la partita Napoli-Empoli lo trattenne a Napoli. Fabio (e Sorrentino) attribuirà la sua salvezza a Maradona. 

Nel tratteggiare i tipi che ruotano intorno al maturando Fabietto (Filippo Scotti è diretto in sottrazione, come un Antoine Doinel italiano) Sorrentino è obiettivo nella surreale deformazione. Moralmente impietoso verso tutti i componenti della propria famiglia (come il Truffaut de I 400 colpi), a eccezione di qualcuno, cui riserva una inedita poesia stralunata, palazzeschiana (la madre, la brava Teresa Saponangelo; e la zia matta, kusturiciana, Luisa Ranieri), non esita a ricostruire fisionomie, fissazioni e tic degli adulti, come un regista surrealista slavo (penso a un Jurai Jakubisko, a un Emir Kusturica), dentro un’inattesa ironia al vetriolo. Sa circondare di fine lirismo una bella e delicata donna (la ricordata zia Patrizia) che finirà in manicomio per sottrarsi alle percosse di un marito represso, un personaggio da far invidia al Miloš Forman di Qualcuno volò sul nido del Cuculo.

Eppure, nel felice panneggio di un affresco in cui spiccano alcuni ritratti alla Brueghel (parenti e amici nel pranzo d’apertura, in un afoso pomeriggio d’estate, da Illuminazione intima per il giovane protagonista), pare che il ritmo del racconto, ogni tanto, s’imbrigli in qualche improvvisa stasi narrativa. Rallentamenti dovuti a una eccessiva ricerca del simbolico; allusioni che risulterebbero funzionanti nella sceneggiatura, ossia letterariamente, ma nel film appaiono sbilancianti. La sorella, sempre nel bagno, che esce sul finale, non convince; la notte brava insieme al bullo contrabbandiere, violento per solitudine, poco utile alla diegesi; i medici del pronto soccorso eccessivamente ridicolizzati nella loro impreparazione; il ruolo antropologico del munaciello, se non spiegato (non tutti hanno letto Matilde Serao), rischia di rimanere locale bozzetto simbolico, e non lo salva l’allusione al fratellastro nella chiusa. Infelice, infine, la battuta “educativa” del padre (Toni Servillo: fuori ruolo) verso le donne, rivolgendosi al figlio Fabio: “Devi farlo prima o poi; prendi una, pure brutta e fallo!”. E, successivamente, non necessaria, oltre che poco cinematografica, l’iniziazione sessuale di Fabio con la vecchia contessa.

La ricostruzione degli anni Ottanta, di Carmine Guarino, merita un elogio, con le auto d’epoca, inclusi i treni FFSS con gli scompartimenti di seconda classe. Le non facili incollature tra cielo e mare, in diverse ore del giorno, sono il risultato della attenta fotografia di Daria D’Antonio. Forse ci è parso di notare un anacronismo di sceneggiatura, quando il fratello di Fabio, Marchino, sfiduciato verso il presente, sulla banchina, dice che non intende pensare al futuro essendo il nove agosto. E, successivamente, si festeggia la vittoria dello scudetto da parte del Napoli, il 10 maggio 1987. Ma ci sta. Se il film è antirealista, può essere anacronistico.

È stata la mano di Dio, autobiopic innegabilmente intrigante, è la storia intima di Sorrentino degli anni Ottanta che ricorda quella di Fellini degli anni Trenta: lasciare i luoghi cari, le amicizie, i parenti, per realizzare un sogno lontano da casa, a Roma. Scegliere, poi, la settima arte come nuova madre per un ragazzo orfano fu un atto di coraggio e maturità; e il suo racconto, oggi, commuove lo spettatore. È questo “quel che resta del giorno” dell’adolescenza. Meno convincenti, per noi, i motivi “filosofici” cui Sorrentino allude, se diventano apodittici, per un autentico viaggio di formazione. Esaltare la sola fantasia non basta, artisticamente si ha bisogno anche di un “principio di realtà”; ridurre la vita al caso non considerando la fede è una limitazione; svilire la poesia dell’amore fisico non ci arricchisce.

(Foto: The Apartment)


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