Perché il presidente Raisi ha scelto questo terreno scivoloso per sfidare e irritare l’America in un momento così difficile del negoziato? Tutte le ipotesi in campo
Kazem Gharibabadi, segretario generale dell’Ufficio per i Diritti Umani dell’Iran, ha annunciato nei giorni scorsi che il suo governo pubblicherà l’elenco degli enti pubblici e degli individui responsabili negli Stati Uniti di violazioni dei diritti umani e successivamente saranno rese note le sanzioni iraniane cui verranno sottoposti: “Esperti nel campo dei diritti umani confermano che negli Stati Uniti la violenza della polizia contro soggetti di colore dovrebbe essere considerata razzismo sistemico”.
La dichiarazione dell’alto funzionario iraniano ha fatto esplicito riferimento al caso di George Floyd, come si ricorderà drammaticamente ucciso da un poliziotto nel Minnesota nel 2020.
La notizia è arrivata proprio nelle ore in cui a Vienna era attesa la ripresa dei negoziati sul nucleare iraniano, il complesso meccanismo per cui i negoziati si svolgono tra Iran ed europei, che poi riferiscono ai delegati americani che infatti non parlano direttamente con gli iraniani.
Di che cosa si tratta? Di una provocazione? Di una puntura di spillo iraniana agli Stati Uniti? Di uno “stress test” dell’interlocutore al difficilissimo tavolo negoziale? Infatti siamo in un momento delicatissimo in cui tutti parlano di scetticismo crescente sulla possibilità di giungere ad un accordo che riporti in vita l’accordo sul nucleare iraniano che fu raggiunto da Obama e poi abbandonato da Trump. In un momento così delicato perché mandare alla controparte un simile messaggio di sfida?
Maestri di tattica negoziale, gli iraniani hanno prima rinviato quanto possibile il ritorno al negoziato per dare al nuovo governo il tempo di definire la propria squadra e le proprie proposte, poi hanno mostrato una linea aggressiva, chiedendo che prima gli Stati Uniti rimuovano tutte le sanzioni e poi si firmi il nuovo accordo. E ora? Teheran intende far pensare che è più interesse americano raggiungere l’intesa che loro? O vuole ostentare sicurezza quando tutti potrebbero pensare che tema le conseguenze, gravissime, di una rottura? Alcuni la pensano così, ma è importante considerare che Teheran ha in questi ultimi tempi sottoscritto un trattato bilaterale dalla durata venticinquennale con Pechino, ne sta discutendo uno analogo con Mosca ed è stata ammessa quale membro permanente al SCO, Shangai Cooperation Organization, guidata da Mosca e Pechino. Vale la pena ricordare che ne fanno parte anche Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, India, Pakistan.
Un’altra possibilità è creare le condizioni per dare all’interlocutore la responsabilità del fallimento, provocando, irritando, per causare il famoso “fallo di reazione”.
In ogni caso non c’entra né George Floyd né la condizione degli afro-americani, visto che appare strano che per preparare la lista dei soggetti da sottoporre a sanzioni ci sarebbero voluti quasi due anni e soprattutto l’uscita di scena di quel Trump che aveva ritirato l’adesione americana al trattato sul nucleare iraniano.
Il nuovo presidente iraniano non può essere ritenuto un appassionato difensore dei diritti umani neanche dai suoi, visti i suoi noti trascorsi nelle pagine più feroci della repressione interna, ma viene anche definito da molti un “pragmatico”. Se si minaccia di pubblicare un elenco di soggetti ed enti americani inclini alla discriminazione razziale e il bluff non va bene si può certo pensare che nessuno se ne ricorderà. Ma perché il presidente Raisi avrebbe scelto proprio questo terreno che non si può definire il più congeniale alla sua storia per sfidare e irritare l’America in un momento così difficile del negoziato? Teheran conosce bene l’arte del negoziato, ma conosce bene anche quella della propaganda.