Gli economisti americani sono concordi nel prevedere prezzi surriscaldati fino al 2023 o anche oltre. Il rischio è annullare gli effetti dei piani pandemici di Biden e con essi le speranze di una ripresa sana e duratura. La Fed ormai è in assetto da combattimento, mentre la Bce sonnecchia
Sarà meglio che Joe Biden si armi di santa pazienza. L’inflazione (+6,2% a ottobre) attanaglierà l’economia americana per almeno tre anni, minacciando la ripresa degli Stati Uniti e, soprattutto, gli effetti dei piani pandemici messi in campo dalla Casa Bianca. Lo sa bene il governatore della Fed, Jerome Powell, pronto a interrompere stimoli e acquisti mensili di debito (120 miliardi mese) nel nome del raffreddamento dei prezzi. E lo sanno bene gli stessi economisti statunitensi, per i quali l’inflazione è molto più di un fattore transitorio, ma una condizione strutturale.
PAESE CHE VAI, INFLAZIONE CHE TROVI
Il problema non è di poco conto (qui l’intervista di pochi giorni fa a Carlo Cottarelli). Prezzi più alti vuol dire meno potere d’acquisto per famiglie e imprese e dunque parziale annullamento dell’impatto delle misure pandemiche, che consentono l’afflusso di denaro fresco nel mercato. Per gli Stati Uniti il punto è proprio questo, la capacità di spesa dei cittadini. Dal momento che gli Usa sono indipendenti da un punto di vista energetico, grazie al gas e al petrolio di shale, l’inflazione attacca non tanto il costo delle materie prime quanto la spesa per beni o servizi, quotidiana o meno che sia.
Lo stesso non si può dire, per esempio, dell’Italia. Paese a quasi completa dipendenza energetica, dove il rincaro dei prezzi nasce in buona parte dalle bollette e dunque dai costi dell’energia. Che hanno un impatto forte anche sulle imprese che senza elettricità non possono funzionare e dunque sopravvivere.
WASHINGTON ABBIAMO UN PROBLEMA
Tornando agli Stati Uniti, l’inflazione non mollerà la presa per i prossimi anni. Un gruppo di economisti intervistati dalla National Association of Business Economics (Nabe), quasi 50 esperti, ha detto chiaro e tondo che per i prossimi tre anni i prezzi negli Usa rimarranno fuori misura. Di essi, oltre il 70% si aspetta che l’indicatore dell’inflazione della Federal Reserve non scenda sotto la soglia del 2% “fino alla seconda metà del 2023 o l’anno successivo”, ha affermato il vicepresidente della Nabe, Julia Coronado, che è anche fondatrice e presidente di MacroPolicy Perspectives.
Naturalmente c’è di mezzo il piano di stimoli messo a punto dalla Casa Bianca, che gonfia stipendi e crea nuovi posti di lavoro, aumentando la domanda di beni e servizi e surriscaldandone i prezzi. Cosa di cui è fortemente convinta anche la Federal Reserve, mai come oggi in assetto da combattimento.
LA SCELTA DELLA FED…
Dopo mesi di tentennamenti, la Fed pare decisa a combattere con ogni mezzo l’inflazione, destinata in novembre a balzare al 6,7%. D’altronde, da quando ha ammesso che non è più da considerarsi transitoria, Powell ha deciso di indossare i panni del pompiere pronto a domare l’incendio dei prezzi. Non è solo il carovita, a parere della banca centrale Usa, a legittimare il probabile irrigidimento monetario, ma anche l’andamento del mercato del lavoro e in particolare il calo del tasso di disoccupazione, sceso in novembre al 4,2%, nonostante le assunzioni siano state appena 210mila.
…LO STALLO DELLA BCE
Semmai, chi rischia di essere tacciata di immobilismo è la Bce. Che finora non si è per nulla mossa dinnanzi al rialzo dei prezzi in Europa, materie prima incluse. Ma secondo gli economisti delle Generali non è tempo di copiare la Fed, anzi “è improbabile che la Bce segua il cambiamento della retorica sull’inflazione della Fed nella riunione del 16 dicembre. I funzionari della Bce”, si legge in report, “hanno infatti continuato a sottolineare che continuano a valutare l’attuale picco di inflazione come transitorio per la ben nota trinità legata all’effetto base (confronto con il dato molto basso dell’anno precedente), ai prezzi energetici più alti e ai colli di bottiglia nella produzione. Per il resto, le pressioni salariali sono ancora contenute e le aspettative di inflazione ancorate. In conclusione, un rialzo dei tassi nel 2022 è ancora altamente improbabile, ma il nostro scenario base di tassi invariati nel 2023 è sempre più a rischio”.