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Tra potere, autorità e obbedienza, ecco il velo del silenzio raccontato da Cernuzio

Una road map per chiunque sia interessato a capire il drammatico caso degli abusi nel mondo ecclesiale. Dai ruoli apicali ricoperti per molti anni, alla riflessione profonda sul senso di obbedienza. Riccardo Cristiano recensisce “Il velo del silenzio” del vaticanista Salvatore Cernuzio, edito da San Paolo editore

“Il velo del silenzio”, il libro di Salvatore Cernuzio pubblicato da San Paolo, ha un sottotitolo che può apparire spiegare la sua natura di libro di “nicchia”: “Abusi, violenze, frustrazioni nella vita religiosa femminile”. E invece proprio questo sottotitolo ci aiuta a capire perché questo libro sia una road map per chiunque sia interessato a capire il drammatico caso degli abusi nel mondo ecclesiale.

Leggendolo mi sono ricordato dell’anno più importante della mia vita, il 2012, l’anno che vissi a stretto contatto con padre Paolo Dall’Oglio. Stavamo andando a un incontro sulla Siria quando mi disse grosso modo così: “Sono contento che voi giornalisti vi occupiate della ferita degli abusi sui minori. Ma non si capisce tutto se non si affronta il significato di tre parole: autorità, potere, obbedienza. Noi siamo costruiti nell’obbedienza, voi dovete capire di quale obbedienza si tratti”.
Nella prefazione al volume di Salvatore Cernuzio padre Giovanni Cucci, del collegio degli scrittori de La Civiltà Cattolica, va dritto al punto già nell’introduzione: colpisce, affonda sia il cronista sia il lettore, con schiettezza e chiarezza, senza lasciare spazio neanche per un secondo a quel sapore melenso o “addolcito”, che spesso, come nella preoccupazione per l’acidità della minestra, accompagna alcuni volumi sul silenzio, partendo dal punto dei punti, cioè “la tendenza, ad esempio, a mantenere in carica sempre le medesime persone per lunghi anni, anche più di 30-40. Ciò racchiude in sé gravi rischi per chi esercita l’autorità: la tendenza a identificarsi con il ruolo e a confondere il proprio volere con la volontà di Dio, fino a imporlo in maniera rigida all’intera Congregazione o alla comunità. Chi è sottoposto rischia, a sua volta, di confondere la ricerca della volontà di Dio con il benestare dell’autorità. E così, in nome dell’unità, si mette a tacere qualunque pensiero che non si limiti a ripetere la voce di chi governa. Sono le caratteristiche di quello che papa Francesco chiama il pensiero rigido: identificare la persona con la sua funzione e confondere unità con uniformità. Da qui la difficoltà a riconoscere, prima ancora che esprimere, le perplessità di un tale stile di vita: la persona si sente diversa, marginalizzata, nemica della Congregazione.

Ricoprire un ruolo in qualche modo sacro può, inoltre, con più facilità (se non vi è una attenta vigilanza), prestarsi al pericolo di strumentalizzare la fiducia con la quale la persona apre la propria coscienza, specie se debole o facilmente manipolabile, utilizzando il ruolo occupato per gratificare bisogni personali e imporre la propria volontà: “Nella teologia cattolica, e non solo, la parte più sacra dell’uomo è la coscienza individuale […]. Il ruolo di colui che accompagna non consiste nel dire alla persona ciò che deve fare, bensì nell’aiutarla a fare luce su ciò che ritiene meglio per sé. Prendere il posto della coscienza altrui è, appunto, un abuso di coscienza”.

Si dirà; e allora? Il rilievo di questa deformazione dell’obbedienza si capisce meglio spaccando le semplificazioni, escludendo le scorciatoie, mandando in pensione certe formule che a me appaiono troppo facili. Facciamo un esempio: quando si parla di abusi sessuali si fa derivare questo problema da certe idee circolate negli anni Settanta: “sesso libero”! Ma il rapporto francese non ha squadernato dati impensabili sugli abusi prima degli anni Settanta, cioè in quegli anni Cinquanta che costituivano un po’ il modello di Chiesa non abusante? Evidentemente il problema specifico, che esiste, fa parte di un problema che va visto nel contesto di un problema più ampio: bisogna davvero seguire, capire, analizzare il tema dell’obbedienza, dell’autorità?

Scrive padre Cucci: “Anche nelle testimonianze di religiose abusate da preti, la reazione dell’autorità, sia essa maschile che femminile, ha conosciuto modalità non di rado identiche. Si è preferito “tutelare” il buon nome dell’istituzione sacrificando la vittima: la religiosa abusata viene trasferita, accusandola di aver sedotto il prete, e il prete rimane al suo posto, continuando indisturbato la sua attività predatoria. Se poi l’abuso viene da una donna, questa forma di colpevolizzazione è ancora più forte. Mi ha molto colpito in tutte queste storie di vita un aspetto ricorrente: la richiesta unanime di garantire l’anonimato, di chi racconta e della Congregazione di appartenenza. Il motivo sembra evidente. Ciò tuttavia pone seri interrogativi sull’esercizio dell’autorità e sul voto di obbedienza così come viene di fatto vissuto in quegli istituti”.

Quando sono arrivato qui mi sono trovato davanti a quelle parole che mi avevano colpito ma, come sempre, non avevo capito in pieno: “Siamo costruiti nell’obbedienza…”. Voleva dire che l’obbedienza è un voto, ma all’insegna del servizio e non della paura. E qui mi è tornata alla mente una frase sussurrata da una persona che non voglio citare, “esiste anche la gloria della paura”…. Davvero il superiore è al servizio della comunità, siamo sicuri? Le storie narrate da Cernuzio sono allora importantissime per capire “la gabbia” dell’abuso. Cosa vuol dire? L’importantissima introduzione lo spiega benissimo, dopo aver ricordato che alcune religiose chiedono di essere valutate in base al colore della loro pelle, citando una ricerca curata dal generale dei certosini, che riferisce di una psicologa che ha assistito alcune suore con sindromi suicidare: “Sembrava che di tutto quanto potesse contribuire al sollievo della loro persona, il loro centro d’interessi, i loro talenti, fosse stato chiesto loro di spossessarsene. Avevano cercato di diventare la perfetta religiosa santa rinunciando a tutto ciò cui aspiravano. Le direttive comunitarie indicavano un modo, mentre il loro intimo ne chiedeva un altro. E più si conformavano, più i dubbi, i conflitti e la cattiva immagine di sé si amplificavano, fino a cancellare la loro identità di figlie di Dio, e a ritenere di essere preda del demonio… Solo la morte poteva liberarle da questi tormenti”.

Dunque il tema dell’abuso è intimamente connesso con l’abuso spirituale: “L’abuso spirituale può essere definito anche in base ai suoi effetti, alcuni dei quali sono: autostima danneggiata, dipendenza indotta, minore capacità di avere fiducia, reazioni emotive come ira, ansia e depressione. Gli esperti aggiungono che in alcuni casi può essere scossa pure la propria fede in Dio”. A questo punto ogni lettore, che sente parlare solo di abusi sessuali, ha bisogno di essere preso per mano, ed è quello che accade: “Gli episodi di violenza sessuale sono stati in gran parte perpetrati da persone con un forte senso carismatico e una modalità di gestione del potere che non tollerava punti di vista differenti, incapaci di ascolto, di empatia ed estremamente rigidi nella maniera di proporre la sequela evangelica”.

Qui siamo a una traccia di fondo sulla quale ovviamente il linguaggio non aiuta, occorre invece guardare, procedere: “Un altro dato rilevante che merita attenzione è il fatto che non tutte le religiose che escono dalla loro Congregazione lo fanno perché non trovano più senso nella vita consacrata. Tra loro ho incontrato persone con un enorme carico di sofferenza unito a un grande coraggio: hanno abbandonato una vita di sicurezza materiale e di appartenenza, in età non più giovane, per restare fedeli alla propria coscienza. Come e perché, dopo anche più di 25 anni in un istituto religioso, esse decidono di approdare a una nuova realtà piena di rischi e incertezze, mantenendo tuttavia la fedeltà alla chiamata in una forma comunque riconosciuta dalla Chiesa? Ciononostante si trovano prive di una casa, di un lavoro, e molte volte sono anche oggetto di giudizi sommari e privi di carità all’interno della stessa Chiesa”.

Dopo alcune ricette preziose per uscirne, che chiudono l’introduzione, si entra nel vivo del racconto, un racconto in presa diretta o meglio il racconto di tanti racconti, che Cernuzio però riunisce sotto un filo comune, che premette: “Sono quindi ragazze e donne generalmente intuitive, capaci, anche brillanti, oppure semplicemente donne, che si trovano invece mortificate nei loro talenti e nelle loro aspirazioni e che, nel peggiore dei casi, sono costrette a un cambio radicale di vita, perché mobbizzate, deluse, oppresse dalle loro compagne o dai padri spirituali e visitatori canonici, che il più delle volte aggravano la loro situazione, generando una sfiducia anche nei confronti dell’autorità di sesso maschile. A volte non trovano il giusto sostegno neppure nel vescovo locale, con il quale sono andate a sfogarsi o chiedere provvedimenti, che rimanda tutto nelle mani della superiora. Le loro situazioni vengono sottovalutate oppure trattate come quelle di donne da restituire a un diverso stato di vita. Un problema d’ufficio in più da sbrigare. Molte finiscono così, una volta uscite, in mezzo a una strada, a vivere in condizioni di vulnerabilità estrema: senza documenti; senza una famiglia a cui rivolgersi, perché lontana o scandalizzata dalla decisione; senza soldi, perché la Congregazione dice di aver già speso tanto negli anni; senza un lavoro né la capacità di saperne svolgere uno, perché per lungo tempo al massimo hanno imparato a curare il giardino o a rattopparsi l’abito”.

Seguono i vari racconti e la cosa migliore da fare e comprare il libro e leggere in prima persona storie come quella di una giovane originaria del Camerun: “La sensazione che la giovane camerunese inizia a percepire, prima di averne conferma con i fatti, è che la sua pelle nera la pone in una posizione di inferiorità rispetto alle altre consorelle: «Chiamiamolo pure razzismo!» dice. Le discriminazioni arrivano soprattutto dalla madre superiora, polacca cinquantenne, allo stesso tempo maestra delle novizie. «Nella comunità eravamo tre africane: io e due ragazze dell’Africa dell’Est. Erano quasi bambine, una 16 anni, l’altra 18, e venivano da contesti poverissimi, per cui anche la vista di un supermercato le entusiasmava. Sia per l’età, sia perché eravamo in minoranza e quindi più deboli, la madre veniva da noi e ci chiedeva di riportarle qualsiasi cosa avessero fatto o detto le altre suore durante le nostre uscite esterne, ad esempio per la messa o per partecipare alle attività e alle feste della parrocchia. La superiora aveva un interesse morboso a quello che facevamo fuori dal convento. Quando tornavamo insieme facevamo un rapporto oggettivo: la messa è iniziata e finita a quell’ora, ha celebrato quel prete ecc. A lei, però, non bastava, non era soddisfatta. Ci chiamava dentro un’aula dove tenevamo i corsi, ci seguiva nelle cucine per sapere, ci prendeva in disparte. Ci formava alla calunnia. Si serviva di noi. Voleva sapere tutto quello che facevamo: “Quella ha salutato un uomo? Ha guardato quest’altro?”. Io, inizialmente l’ho fatto, ma la mia coscienza mi ha subito interpellato: non sono stata educata così dai miei genitori, mia mamma mai mi ha chiesto di guardare alla vita degli altri, non sono cresciuta nell’ipocrisia. Ho detto perciò alla madre che non avrei voluto continuare con quest’opera di spionaggio». Un libro da non perdere.

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