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Bersani e D’Alema non risolvono il problema del Pd. Firmato Fioroni

Cosa significa l’annunciato ritorno di D’Alema e Bersani nelle fila del Pd? Sembra una formula di ripiegamento, senza una carica di stimolo e riflessione. Non aiuta il Pd ad uscire dalle nebbie della sua “crisi d’identità”

All’epoca la scissione di D’Alema e Bersani conteneva i geni dell’avventura. In fondo costitutiva una fuga dalla realtà: Renzi, a modo suo, aveva posto un problema di “forma”, vale a dire il rinnovamento del Pd; a sinistra la scelta fu la rottura, il rifiuto della sfida, la contestazione del diritto a rimescolare le carte. Si reagì con superficialità e supponenza, immaginando che esistesse nella società un coagulo di natura identitaria, ovvero una “Italia rossa” incontaminata, un popolo bisognoso di ritrovare se stesso, una chiesa diffusa e dispersa da riunire nuovamente. I dati elettorali hanno fissato attorno al 2% questa riserva di fedeltà alla tradizione della sinistra.

Ora, dunque, cosa significa l’annunciato ritorno di D’Alema e Bersani nelle fila del Pd? Sembra una formula di ripiegamento, senza una carica di stimolo e riflessione. Non aiuta il Pd ad uscire dalle nebbie della sua “crisi d’identità”. Avrebbe un senso, al contrario, se fosse l’avvio di un vasto processo di riaggregazione, specialmente al centro, con il recupero di forze diverse e l’innesto di rami freschi sul tronco più antico. Per essere un partito in grado di collocarsi tra il 30 e il 40 per cento dei consensi elettorali, dovrebbe sospingersi oltre le colonne d’Ercole della “sinistra eterna” (a se stessa).

Se tornano Bersani e D’Alema, allora varrebbe la pena che tornassero, a maggior ragione, Calenda e Renzi. E varrebbe ancor più che fosse “ingegnerizzato” un partito all’americana, simile appunto ai Democratici d’Oltreoceano, capace cioè di accogliere la giovane (radical-socialista) Ocasio-Cortez assieme al veterano (centrista-moderato) Biden: un partito progressista plurale, storicamente obbligato ad affidarsi ai “centristi” per vincere le elezioni e governare l’America. Ma non è questa, ad intuito, la prospettiva connessa alla liquidazione di Articolo 1; piuttosto, con essa, rimonta l’idea del riscatto, come se dopo Renzi la soluzione stia nel ritorno a prima di Renzi.

Tutto ciò non aiuta il Pd. Se la logica delle Agorà fosse questa – o meglio solo questa – la scommessa di Letta sarebbe inficiata dal revanscismo degli esuli. Mancherebbe persino lo sprint per affrontare con slancio, già nei prossimi giorni, l’epilogo della lunga e delicata partita del Quirinale. Pertanto, anche volendo vedere un connotato positivo in questo ennesimo trasloco di classe dirigente, l’auspicio è che subentri ancor più la consapevolezza che il riformismo per essere vero, ossia per apparire autentico e forte, esige di andare oltre il perimetro della sinistra storica. In che misura, infatti, il riformismo ha potuto esprimersi in quel suddetto perimetro angusto? Non si sfugge all’interrogativo, né lo si occulta facendo premio sulla “spettacolarità” di alcune mosse politiche, dando persino mostra d’ingenuità. A tutto si può credere meno alla circostanza che il Pd esca dalla condizione di perenne crisalide senza la riscrittura della sua premessa costitutiva, quando l’opzione di “partito aperto” fungeva da inglobante per il pluralismo delle istanze e delle visioni riformatrici.


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