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Biden e l’ombra di un nuovo 6 gennaio. Parla Antinori

L’assalto al Campidoglio è la punta dell’iceberg. A un anno dall’attacco al cuore della democrazia americana gli Stati Uniti targati Joe Biden si trovano ancora più esposti. Dalle lacerazioni sociali all’eversione che riprende forza: parla Arjie Antinori, professore di Criminologia e Sociologia della Devianza alla Sapienza di Roma

Un altro 6 gennaio oggi è possibile. E può fare molti più danni. A un anno dall’assalto a Capitol Hill che ha scosso le corde profonde della democrazia americana l’ombra eversiva si staglia ancora una volta sul Campidoglio. Arjie Antinori, professore di Criminologia e Sociologia della Devianza alla Sapienza di Roma, è convinto che ci siano le condizioni per un nuovo, più grave cedimento del sistema politico americano. Un tessuto sociale frammentato. L’estremismo armato vivo e vegeto. Una promessa vacillante, Build back better, su cui i democratici e Joe Biden hanno scommesso molto più di un mandato.

Professore, come arriva l’America di Joe Biden al 6 gennaio?

L’anniversario si inserisce in un contesto politico ancora polarizzato. Quel movimento connettivo che ha marciato sul Capitol ritrova linfa in una crisi pandemica che continua ad attivare spinte negazioniste e cospirative, ma anche nell’opposizione a un presidente in grave calo di consensi.

Donald Trump è ancora lì, dietro le quinte. Sta tornando in campo?

La stessa decisione di annullare il contro-discorso del 6 gennaio riflette una valutazione politica, un piano di reinserimento.

Il partito ha fatto i conti con quegli strascichi drammatici dell’era trumpiana?

Tra il partito e la base elettorale c’è ancora una miriade di corpuscoli che continuano ad alimentare sentimenti di matrice violenta e istanze suprematiste. Le inchieste dell’Fbi hanno dimostrato l’esistenza di una regia dietro a queste realtà. È il caso di 1AP (First amendment pretorian, ndr), il gruppo dei “pretoriani”, di cui fanno parte l’ex Consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn e diversi senatori repubblicani, che ha pianificato e monitorato sul campo l’assalto del 6 gennaio.

Come?

Una forma di pseudo-intelligence. Una vera e propria milizia con un ruolo di garanzia e di incitamento della sommossa.

Queste persone hanno un peso alle urne?

Senz’altro. Il Partito repubblicano oggi è sottoposto a un doppio ricatto. Dal basso: questa base movimentista, che ha fatto dell’espressione violenta una nuova forma di rivendicazione politica, è in grado di veicolare voti e destabilizzare da dentro il partito.

E dall’alto?

Trump, ovviamente. Che un anno dopo, sia pure privato dei riflettori social, continua a giocare sulla retorica della “coltellata alle spalle” e mette in discussione la legittimità stessa dei processi elettorali. Da quando Biden è stato eletto i team dei legali trumpiani non hanno smesso di sollecitare verifiche a livello territoriale, con un pressing molto forte sulle istituzioni.

Un altro 6 gennaio è possibile?

Da una parte sarebbe difficile ripetere l’assalto al Capitol: il 6 gennaio ha spinto governo e intelligence a rafforzare i protocolli di sicurezza con strategie di intervento rapido e simulazioni di scenari di proteste degenerative. Dall’altra in America è in corso un depotenziamento delle forze di polizia a favore di un ricollocamento di risorse per il sociale, sulla spinta di movimenti come Black Lives Matter, che ha un impatto non trascurabile.

Insomma, un nuovo attacco alle istituzioni potrebbe andare a segno.

Troverebbe un tessuto sociale più lacerato. E la leadership democratica molto indebolita, picconata da dichiarazioni di politici popolari fra i giovani, come Alexandra Ocasio-Cortez. Sullo sfondo, l’ombra di una ricandidatura di Trump nel 2024 che si fa concreta.

Non si possono mettere al bando questi gruppi?

Non è facile dichiarare eversive milizie che hanno avuto un ruolo attivo nelle sommosse di gennaio come Boogaloo, Patriots, Oath Keepers. In Canada ci sono vere e proprie blacklist, in America ancora non sono riusciti a fare i conti con la questione Kkk. Per di più diversi di questi militanti sono veterani della polizia o delle forze armate in congedo. L’Fbi sta indagando su queste commistioni.

Cos’ha in comune il movimento del 6 gennaio 2021 con i gruppi eversivi europei?

C’è una prima, grande differenza: le armi. In Europa, in Italia non esistono leggi che permettano a realtà come i Proud Boys di acquistare fucili d’assalto. In America c’è un accesso diretto alle armi, che trova una sua legittimazione in tribunale, come dimostra il caso di Kyle Rittenhouse, il ragazzo che ha ucciso due manifestanti di Black Lives Matter.

Dunque non ci sono legami?

I movimenti connettivi violenti fanno sempre da ponti tra mondi diversi. Alcune delle loro narrazioni rimangono a lungo nell’infosfera estremista. Penso al complotto dell’“inganno elettorale” subito da Trump nel 2020. Un anno dopo la bolla è ancora lì: dà vita a interazioni, contenuti sui social network, di solito si sgonfiano molto prima.

Ci sono commistioni con il movimento no-vax?

Non c’è dubbio, i piani spesso si sovrappongono. Un fenomeno interessante è in corso dentro QAnon. Nell’attesa di decidere cosa fare del mito di “Q”, dopo un anno di silenzio di Trump, alcuni corpuscoli si stanno frammentando e dissolvendo all’interno della più grande famiglia no-vax. Siamo in un contesto di overlapping di criticità.

Una regia di potenze esterne come Cina e Russia è da escludere?

Non abbiamo prove significative di una regia intorno alla sommossa del 6 gennaio. Al contrario la Cina ha offerto a movimenti come QAnon il pretesto per agitare la minaccia del “nemico esterno”. Diverso è il caso dell’ “intossicamento” del dibattito politico a ridosso delle campagne elettorali. Su questo fronte sono già arrivati alert dall’intelligence americana in vista delle elezioni di mid-term.


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