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Il bollettino Covid deve cambiare, non sparire. La versione di Boccia Artieri

I cittadini hanno bisogno di essere informati, basta vedere la reazione alla mancata conferenza stampa di Draghi. “Servirebbe una cabina di regia comunicativa che facesse una narrazione prospettica dei dati”, anche quotidiana. Conversazione con il sociologo e saggista Giovanni Boccia Artieri

Bollettino sì, bollettino no. È davvero in questi termini che si deve porre la domanda sui dati giornalieri relativi alla pandemia comunicati dal governo, sulla cui diffusione negli ultimi giorni ci si interroga? Secondo Giovanni Boccia Artieri, professore ordinario di Sociologia della comunicazione e dei media digitali nell’Università di Urbino Carlo Bo e autore di “Shockdown. Media, cultura, comunicazione e ricerca nella pandemia” (con M. Farci, Meltemi, 2021) e “Voci della democrazia – Il futuro del dibattito pubblico” (con S. Bentivegna, Il Mulino, 2021), no. “Non bisogna eliminare la comunicazione sui dati, ma bisogna modificarne le fattezze in funzione del contesto che, rispetto a un anno fa, è cambiato”. E non solo. Secondo il professore, servirebbe una cabina di regia comunicativa che si prendesse carico delle esigenze informative dei cittadini, perché c’è un fortissimo bisogno di informazione, non il contrario.

Professore, è di questi giorni l’idea di eliminare il bollettino quotidiano dei dati sul Covid. Cosa ne pensa?

Sul bollettino, il tema centrale e la questione su cui interrogarsi è la capacità di leggere i dati che vengono forniti oppure averne una loro interpretazione.

Insomma, il punto non è eliminare o meno il bollettino, ma che tipologia di dati offrire?

Il bollettino quotidiano è un racconto sui dati che hanno bisogno di una competenza scientifica o almeno matematica per essere interpretati correttamente e poi capiti. Le ultime ricerche ci dicono che gli italiani hanno un livello di preparazione non sufficiente, o comunque bassa, per analizzare i dati, quindi su questo intervengono tutti i mediatori, compresi i giornalisti, che non sempre fanno il loro lavoro.

Perché?

Perché lavorare dati così complessi come quelli di una diffusione epidemica richiede competenze interpretative che forse dovremmo lasciare agli scienziati. Quindi da una parte c’è l’esigenza di un racconto che ci tenga informati, dall’altra il fatto che tutti possano rendersi interpreti dei dati può generare caos, se pensiamo che il dato di per sé è oggetto di interpretazioni diverse all’interno della stessa comunità scientifica.

Di cosa abbiamo bisogno, ora?

Ora credo ci sia bisogno di una narrazione prospettica, che indichi non tanto il day by day, ma quel è l’atteggiamento che dobbiamo avere di fronte alla pandemia e non sempre la lettura del dato secco aiuta su questo. Le faccio un esempio.

Prego.

I dati di questi giorni sono molto peggiori rispetto al periodo del lockdown, ma questo non significa che corriamo gli stessi rischi. Quante persone conosciamo che in questo momento sono colpite dal virus o che sono in quarantena volontaria? E anche il numero dei decessi va letto in funzione del numero di persone vaccinate. La lettura del dato, insomma, non è di per sé trasparente, e il bollettino quotidiano così come lo conosciamo rischia di essere una narrazione poco trasparente per le italiane e gli italiani.

Serve dunque un nuovo modello comunicativo istituzionale? Il governo, insomma, deve parlare diversamente ai cittadini?

Quello che servirebbe è una cabina di regia comunicativa. Davanti a eventi così catastrofici non ci si può permettere di avere voci troppo dissonanti o interpretazioni troppo diverse. Servirebbe una voce unica che ai diversi livelli – da quelli apicali del capo del governo fino alla politica tutta – decidessero in quale modo comunicare ai cittadini, attraverso quali parole chiave, e atteggiamenti. Anche qui, farei un esempio.

Ci dica.

Cittadini e giornalisti si sono lamentati dell’assenza di una conferenza stampa da parte di Mario Draghi dopo le ultime nuove misure prese in Cdm. Perché è successo? Perché c’è bisogno di accompagnare gli eventi con una loro interpretazione e un orizzonte che se non è temporale quantomeno è di prospettiva di quello che ci attendiamo che ci aiuta a vivere il tempo presente. La narrazione, in questo senso, in altre parti del mondo si sta modificando.

Si riferisce al caso spagnolo?

Non solo. Sia il premier britannico che quello spagnolo hanno mostrato l’esigenza di dover cambiare il tipo di atteggiamento nei confronti del virus. Noi in Italia insistiamo ancora sul tema del vaccinarsi, che sicuramente è primario, ma non è più l’oggetto comunicativo principale di cui abbiamo bisogno.

Cambiare direzione comunicativa potrebbe, però, essere vista come un tentativo di manipolazione da chi, ad esempio, vede complotti dietro le scelte del governo?

Noi sappiamo che l’atteggiamento complottista, o anche negazionista, riguarda in realtà una percentuale molto limitata degli italiani, forse un 10%. Questo 10% funziona come un’onda: un motoscafo che passa crea un’onda, ma bisogna capire la capacità di resilienza dell’opinione pubblica a quell’onda. Il tema è, però, che abbiamo a che fare con un oggetto mutante, la pandemia, e le condizioni del contesto si sono modificate: pensiamo al numero di vaccinati o all’uso di comportamenti progressivamente più corretti.

Al cambiare del contesto, insomma, cambia anche il dato?

Esatto. Un dato vale all’interno del momento contestuale; il contesto è cambiato proprio grazie ad azioni che sono state fatte per mutare le condizioni di contesto precedente. Insomma, è naturale che in funzione di questo cambi la narrazione, e non si può dire semplicemente c’era o non c’era la pandemia, si deve costruire un atteggiamento diverso.

Si è detto che la variante Omicron sia meno aggressiva. In funzione di questo si può cambiare narrazione?

Fino ad ora abbiamo vissuto con la narrazione che ogni mutazione suscita un allarme, ma sappiamo ad esempio che Omicron è meno aggressiva. Alcuni sostengono che in casi di varianti meno aggressive convenga lasciarla correre di più.

Ma non è contraddittorio?

No, è coerente con l’idea di non fare lockdown se non in casi particolari come un tasso molto basso di vaccinazioni o rischi molto alti di decessi. E ancora, è coerente col tenere aperte le scuole. Spiegare come a fronte dell’ennesima ondata pandemica i governi si comportano in modo diverso, dipende anche dalla capacità di far capire che mutano le condizioni di contesto.

Come farlo, allora?

Serve una narrazione quotidiana o semiquotidiana, molto forte e di guida. Questo contrasta chiaramente con altre esigenze, come quelle del mercato dell’informazione che invece sul tema della pandemia lavori attorno alla creazione di momenti di scontro tra posizioni, lo vediamo sia nei programmi televisivi di approfondimenti che sui giornali.

La contrapposizione tra le diverse voci. Perché non può funzionare?

Perché quando hai a che fare con un tema scientifico non esistono le varie voci, mentre la risposta dell’informazione è quella del mercato dell’informazione che rende più appetibile un contesto con opinioni contrastanti perché porta ad avere maggiori ascoltatori, lettori, ecc.

Nella rincorsa alle posizioni contrastanti anche le forze politiche giocano una parte. Quale?

C’è il tema pandemia, poi ci sono i sub-temi: usare o no la mascherina, sì o no green pass, sì o no il vaccino. Ecco, al posto di essere valutati dal lato della salute pubblica diventano un tema di partigianeria politica per accattivarsi gli elettori giocando con un certo livello di ambiguità, perché alcune delle forze politiche che si professano contro il green pass, ad esempio, ma fanno parte delle forze di governo che l’hanno introdotto.

Ma la politica è sempre stata così divisiva?

La politica è sempre stata partigiana, in modo diverso nei diversi Paesi del mondo. L’Italia è sempre stata altamente partigiana, diversamente invece da quanto succede, ad esempio, in Germania. Le forze politiche identificano un tema e un bacino di cittadini su cui, poi, orientare le proprie scelte per trasformarli in elettori.

Ma i cittadini, poi, sono effettivamente così divisi? Qual è la distanza tra quello che viene rappresentato a quello che effettivamente è?

Credo che la situazione sia migliore o comunque diversa da come viene rappresentata. Se guardiamo le percentuali di cittadini che sono a favore, ad esempio, di vaccini e green pass, abbiamo una stragrande maggioranza a favore.

E allora?

Il tipo di esaltazione che viene data ai temi più controversi dai media generalisti mostra un’opinione pubblica più divisa di quanto in realtà nei loro comportamenti i cittadini non siano. Questa discrasia è ormai conclamata, ed è la divisione che c’è tra la percezione soggettiva delle persone e il tipo di rappresentazione che la stampa ne dà. È successo anche con altri temi, ad esempio l’immigrazione.

A cosa è dovuta questa sovrarappresentazione delle posizioni minoritarie?

Per informare, una rappresentazione di questo tipo può essere legittima. Siamo in una democrazia, tendiamo a dare spazio a tutte le minoranze, però il problema è quando si crea una sorta di scarto percettivo: è come se tutte le persone attorno a te la pensassero in maniera molto uguale o molto diversa.

Quali sono gli effetti di questo scarto percettivo?

Fa in modo che le persone vadano a cercare le informazioni più coerenti con il loro stesso pensiero, e lo fanno, oggi, attraverso la rete.

A proposito di rete, social network, canali Telegram: quanta parte hanno nella formazione dell’opinione pubblica?

Bisogna considerare una cosa: non è che i social media, internet, diano spazio a… Non stiamo parlando di editori. Facebook non sceglie cosa mette nei nostri stream, i contenuti sono messi dalle persone collegate con noi e l’algoritmo poi rafforza il tipo di informazione che noi cerchiamo.

Quindi?

Quindi paradossalmente se io faccio un post in cui condanno un comportamento in realtà gli sto dando ancora più visibilità, perché al di là della mia interpretazione personale – che magari è negativa – sto dicendo all’algoritmo che quel tema è rilevante. In questo gioco, è evidente che le persone sono polarizzate da prima, solo che la visibilità sulle singole opinioni prima non la vedevamo, stava nei bar o nei piccoli contesti.

I social allora non producono maggiore odio sociale…

Le ricerche ci dicono di no, però danno visibilità a forme di odio e forme di linguaggio che prima rimanevano sommerse e restavano circoscritte in nicchie di pubblico e avevano a che fare con conversazioni interpersonali. Esistono ancora luoghi chiusi, come ad esempio i gruppi Telegram, in cui le posizioni si rafforzano e diventano anche un canale informativo.

Ormai ci si informa solo sui social o solo in rete?

No, le persone hanno delle diete polimediali: buttiamo un occhio al giornale mentre facciamo colazione, sentiamo una notizia mentre guardiamo il telegiornale e poi ascoltando una chiacchierata del nostro collega di lavoro… Quando guardiamo alla rete, ci rendiamo conto che in realtà viene usato più come uno sfogatoio che come un luogo deliberativo della comunicazione.

Quanto ha senso un maggiore controllo dei contenuti da parte dei vari social?

La domanda che ci dobbiamo fare è: io voglio che a censurare la comunicazione sia un’azienda privata? È in grado di valutare una notizia falsa da una notizia incompleta. Le fake news non nascono con i social media, si trovano anche nelle pratiche di marketing dell’800, per capirci. Chi è che sceglie cosa selezionare e come? Ecco, gli anticorpi per una rete più pulita siamo noi: a fare la differenza possono essere i comportamenti degli utenti.


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