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Operazione fiducia. Così il Dragone cerca la sponda delle banche

La vigilanza cinese organizza un incontro con dodici banchieri stranieri per rassicurare la finanza occidentale sulla tenuta della crescita del Dragone. Perché senza fiducia, il debito della Repubblica Popolare crolla. Intanto il listino Star fallisce gli obiettivi

Alla ricerca della fiducia perduta. Non sarà facile per la Cina ritrovare quella sintonia con i mercati demolita un poco alla volta a suon di fallimenti nel mercato immobiliare e interventi a gamba testa dello Stato sulle grandi industrie del Paese. Nei giorni in cui entra nel vivo lo spezzatino di due pesi massimi del mattone cinese, Evergrande e Shimao, ecco che la China Securities and Regulatory Commission ha tenuto una serie di incontri con i manager delle principali banche e gestori patrimoniali d’occidente per rassicurarli sulle prospettive economiche del Paese.

Una mossa che nasconde la profonda consapevolezza di Pechino circa le sue intrinseche fragilità, anche strutturali. Un debito sia corporate, sia pubblico sfuggito di mano, l’incapacità di porre un freno all’ondata di insolvenze nel settore immobiliare e una strategia zero-Covid rivelatasi nel tempo fallimentare. Fang Xinghai, numero due della Consob cinese, ha scritto Reuters, ha interloquito personalmente con non meno di dodici banchieri stranieri, molti dei quali appartenenti alla finanza occidentale, al fine di rassicurarli sul fatto che la Cina raggiungerà una “crescita rispettabile” nel 2022.

Le ultime previsioni sull’economia del Dragone parlano di un +5,2% per il Pil, ben al di sotto degli standard pre-pandemici. Pechino non può permettersi una fuga degli investitori, i soli che possono sostenere il debito cinese, sottoscrivendone i titoli.

Le rassicurazioni però non si sono fermate qui. Fang ha colto l’occasione per chiarire ai banchieri  che Cina e Stati Uniti stanno facendo progressi nel coordinamento dei regolamenti che disciplinano le società cinesi quotate a New York e che potrebbe esserci una “sorpresa positiva” entro giugno o prima. Come noto, entro i prossimi due anni il grosso delle società cinesi quotate a Wall Street dovrà delistare, a causa delle norme americane che impongono ai grandi gruppi quotati con base nella Repubblica Popolare di aumentare il livello di trasparenza dei propri libri contabili. Chi non accetta, è fuori.

Nell’attesa di capire se l’invito alla fiducia verrà raccolto, è tempo di fare un primo bilancio dello Star, il listino tecnologico cinese comparabile al Nasdaq statunitense. In pratica, l’indice borsistico nato nel 2018 che raccoglie i titoli delle società innovative e dove sono convogliati gli investimenti nelle sempre più numerose startup cinesi che operano nel settore tech.

L’annuncio della creazione del nuovo indice era arrivato nel 2019 da parte del presidente cinese Xi Jinping per rendere la borsa di Shanghai più appetibile per società ora quotate altrove, soprattutto a New York e a Hong Kong. Secondo le stime dell’epoca, lo Star Market sarebbe dovuto diventare il secondo mercato più importante al mondo dopo il Nasdaq per volume di scambi dedicati in particolare ad aziende tecnologiche.

Sono trascorsi più di tre anni dal lancio della versione cinese del Nasdaq, e proprio in questi giorni il Trustee Chair Team ha analizzato la performance del mercato Star. Risultato? Il segmento Star è ancora relativamente piccolo e questo nonostante sia cresciuto in modo significativo negli ultimi due anni – da 113 miliardi a 976 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato. Il listino è insomma ancora gracile rispetto alle borse di Shanghai e Shenzhen, al mercato delle obbligazioni societarie cinesi e al credito generato attraverso il suo sistema bancario. Bocciato.

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