Dal bunker di Xi Jinping alle manovre ucraine di Vladimir Putin, dallo strapotere big tech alle mattane nucleari dell’Iran. Eurasia Group, la società di consulenza fondata da Ian Bremmer, pubblica i dieci principali rischi geopolitici del 2022. Ecco quali
Più instabili, più insicuri. Chi sperava che il 2022 esaurisse l’onda lunga della pandemia deve ricredersi leggendo i dieci “Top Risks” pubblicati in un rapporto di Eurasia Group, la società di consulenza e analisi del rischio fondata dal politologo americano Ian Bremmer. “Il 2022 renderà ancora più profondo il G-Zero”, si legge in apertura. Cioè aggraverà il vuoto di leadership globale e la tendenza isolazionista delle due superpotenze chiamate a colmarlo, Stati Uniti e Cina. Un vuoto che lascia molte incognite: dalla capacità di governare l’uscita dalla pandemia ai negoziati per evitare uno scontro militare nelle aree calde del mondo, dall’Ucraina a Taiwan.
La top tre: Covid, big tech e Usa 2022
In cima alla classifica dei rischi svetta la pandemia declinata nella variante Omicron. C’è chi, come Europa e Stati Uniti, vede già la luce in fondo al tunnel. I contagi sono decuplicati ma il tasso di vaccinazione senza precedenti fa sperare che “per i Paesi industrializzati” la pandemia “diventi endemica entro il primo quarto dell’anno”. Non tutti possono dire lo stesso. La politica “zero-Covid” della Cina di Xi Jinping “è destinata a fallire”. Se il bunker delle restrizioni imposte da Pechino ha fermato la prima ondata del virus, di fronte ad Omicron non c’è muraglia che tenga. Il conto arriverà e sarà salatissimo: supply chain interrotte, inflazione, uno Stato centrale onnipresente. “La politica più efficace per combattere il virus è diventata la meno efficace”.
Al secondo posto Bremmer e il direttore di Eurasia Cliff Kupchan mettono “un mondo tecno-polarizzato”. Ormai simili se non superiori a veri e propri Stati, le big tech “esercitano una forma di sovranità su una dimensione interamente nuova della geopolitica: lo spazio digitale”. Il metaverso di Marc Zuckerberg, la corsa alle monete digitali riscrivono il concetto stesso di sovranità. È un processo inarrestabile, si può regolare. Le autorità di Ue e Stati Uniti hanno già lanciato il guanto di sfida, la Cina ha scelto il pugno duro come dimostra il caso Alibaba. Per tutti “una governance inefficace delle big tech imporrà costi sulla società e il business”.
Chiudono il podio le elezioni di mid-term di novembre negli Stati Uniti. A tre giorni dall’anniversario dell’assalto al Campidoglio, l’America si riscopre più lacerata di prima. Bremmer traccia un bilancio severo del primo anno di Joe Biden, “schiacciato dal peso della pandemia e della promessa, disattesa, di “annientare il virus”. Se, come lui stesso dichiara, Donald Trump è pronto a correre per il 2024, “nessun repubblicano potrà negargli la nomination”. Le elezioni di metà mandato saranno decisive per lo scontro presidenziale: con una Camera in mano ai repubblicani, il rischio di un Congresso diviso sulla certificazione del voto è concreto, con uno stallo dagli esiti imprevedibili che “farebbe sembrare docile l’insurrezione del 2020”.
I grandi rivali: Cina, Russia e Iran
Quarto, quinto e sesto posto in classifica sono occupati dai tre grandi rivali di Washington DC: Cina, Russia e Iran. Con la rielezione al Congresso in vista per il prossimo autunno, Xi non può permettersi battute d’arresto del suo programma. Che però è messo in pericolo dall’ondata di Omicron e dalla chiusura a guscio del sistema-Paese imposta da Pechino: “La politica zero-Covid peserà sui consumi e sulla crescita e produrrà nuove frizioni sociali”. Per tutto il 2022 “le aziende straniere incontreranno un ambiente sempre più difficile in Cina”.
Vladimir Putin non resterà con le mani in mano. Una guerra in Ucraina è improbabile per Eurasia Group, “la diplomazia eviterà probabilmente uno scontro diretto”. Ma lo “zar” esigerà concessioni dalla Nato. In caso contrario, “agirà in qualche modo, con una forma di operazione militare in Ucraina o con altre azioni drammatiche in un’altra parte del mondo”. Le elezioni di mid-term in America, poi, offrono ai Servizi segreti del Cremlino “un’opportunità irresistibile per fomentare tensioni in una superpotenza già profondamente divisa”.
Occhio all’Iran di Ebrahim Raisi: il nuovo presidente doveva facilitare un accordo con gli Stati Uniti, “ha scelto la via opposta”. Fra un mese Teheran avrà abbastanza uranio arricchito per costruire una bomba nucleare e l’amministrazione Biden “ha fallito nel tentativo di preparare un piano nel caso in cui l’Iran non fosse interessato a un accordo”. Se Biden “sarà riluttante a intensificare la pressione militare contro Teheran”, Israele rischia di accendere la miccia con “attacchi di sabotaggio” e “potenzialmente anche strike militari contro siti-chiave iraniani”.
Terra di nessuno
Transizione, per dove? Per il settimo posto Eurasia Group sceglie la transizione verde dai combustibili fossili alle energie rinnovabili. Perché è un “rischio”? Perché non esistono pasti gratis. “Nel 2022, gli obiettivi di lungo periodo della decarbonizzazione si scontreranno con i bisogni energetici di breve periodo”. Il terremoto sui mercati energetici, specie in Europa, prova che il passaggio all’energia green non sarà una passeggiata. “L’impennata dei costi retail e wholesaledell’energia alla fine del 2021 comprometterà la crescita economica di ampie parti dell’Europa e dell’Asia nordorientale nel 2022”. E c’è chi se ne approfitterà: “Leader come Vladimir Putin diverse volte in passato hanno usato le loro leve per alterare il mercato energetico”.
Chiudono la lista tre “rischi” diversi. Il primo: dall’Afghanistan al Sahel, dal Venezuela all’Etiopia, il mondo è disseminato di “terre di nessuno”. Con gli Stati Uniti restii a vestire i panni di “poliziotto del mondo” e la Cina costretta nei suoi confini, il vuoto di leadership globale stende un velo di incertezza su questi Paesi vessati da guerre, dittature e carestie. Al penultimo posto Bremmer posiziona la “guerra culturale” delle multinazionali. Lo strapotere dei social media ha anche lati positivi: sensibilizza l’opinione pubblica. Che ora chiede conto alle grandi aziende del mondo dei diritti umani, del lavoro forzato, delle fake-news e del rispetto della diversità. Un pressing che può costringere queste compagnie a una revisione drastica, e molto costosa, delle catene di produzione. Infine la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Il “sultano” è “meno popolare che mai” in casa propria. Complice una politica economica fallimentare che ha calato a picco i tassi di interesse e ha pompato l’inflazione, con la lira alle stelle. Più debole, più imprevedibile: la crisi “potrebbe deragliare gli sforzi di Ankara e Washington di mantenere una agenda bilaterale costruttiva”.