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Aspetti etici relativi al cyberspazio: Il diritto d’autore e la privacy

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In Occidente, la presenza e l’adesione di aziende che provvedono alla privacy policy è parte integrante dell’etica dell’e-business, ed è chiaramente testimoniata da enti pubblici internazionali grazie ai quali si creano certificazioni delle risorse Internet

Negli ultimi anni si è registrata nell’àmbito dell’etica del cyberspazio una tendenza all’emergere di meccanismi intra-rete e di sistemi di autoregolamentazione. In particolare, in molti Paesi europei, i fornitori di servizi di informazione hanno iniziato a introdurre l’autolimitazione volontaria. Ad esempio, nel Regno Unito esiste un’Electronic Frontier Foundation indipendente (www.eff.org), i cui rappresentanti sviluppano sistemi di valutazione per le risorse Internet, mantenendo un monitoraggio costante per raccogliere informazioni sui siti web che violano norme morali e legali e – se necessario – bloccano l’accesso ad essi.

Forse una soluzione al problema della qualità dell’informazione fornita su Internet può venire dal lato dei mass media tradizionali, che negli ultimi tempi si sono sempre più impegnati ad acquisire una versione elettronica delle loro edizioni cartacee o radio-televisive. Inoltre, sono già emersi quotidiani e riviste esclusivamente online che, grazie alla loro serietà e prudenza, hanno conquistato la fiducia del pubblico in rete. Tali pubblicazioni possono svolgere una funzione estremamente importante attraverso protocolli di indagini applicate su vasta scala; valutazione delle pubblicazioni elettroniche; mantenimento della reputazione dei media virtuali; nonché supervisione dell’attuazione delle norme e dei principi di base dell’etica giornalistica professionale su Internet.

Inoltre, va considerato il conflitto etico tra l’autore (proprietario) di un prodotto informativo e il pubblico di Internet, ossia l’analisi delle contraddizione tra il desiderio di accessibilità pubblica delle informazioni di nuova creazione e la necessità di proteggere il diritto d’autore.

L’emergere del concetto di “copyright” (risalente a quasi trecento anni fa: la prima legge in merito è The Statute of Queen Anne, promulgato nel 1709 ed è entrato in vigore il 10 aprile 1710) è dovuto alla necessità di raggiungere un equilibrio tra gli interessi dei creatori di opere originali e le esigenze della società. Pertanto, si basa su due principi morali non coincidenti e talvolta anche contraddittori: disporre dei frutti del lavoro è questione naturale, d’altro canto c’è il principio del libero accesso universale alla conoscenza, che assicura il progresso della scienza e dell’arte e incoraggia il libero uso di qualsiasi informazione e idea senza alcuna restrizione.

Le moderne tecnologie di comunicazione creano possibilità quasi illimitate per il possesso personale e la riproduzione delle informazioni e questo complica notevolmente la protezione del diritto d’autore. Di conseguenza, le leggi e gli accordi internazionali precedenti, sulla protezione della proprietà intellettuale, sono inadeguati e pertanto è necessario rivedere le idee tradizionali sul diritto d’autore.

Come dovrebbe essere modificata l’attuale legislazione per soddisfare le realtà moderne? Ci sono due approcci concettuali per risolvere questo problema. La tendenza generalmente accettata di migliorare le norme nazionali e internazionali del diritto dell’informazione è quella di ampliare l’ambito del diritto d’autore ed estenderlo ai tipi di informazioni elettroniche.

Al tempo stesso, si sottolinea che il diritto d’autore nasce per il fatto di creare un’opera, e non dipende dalla natura del supporto informativo, e quindi il problema si riduce alla necessità di un’adeguata interpretazione della normativa vigente e all’applicazione delle norme esistenti alle nuove condizioni.

Allo stesso tempo, sempre più spesso si esprime il punto di vista opposto, secondo cui l’osservanza del diritto d’autore su Internet rallenta lo sviluppo del web, interferisce con il suo contenuto attivo. I sostenitori più radicali di questo punto di vista sostengono che – poiché il libero scambio di conoscenze e idee è alla base dell’etica dell’informazione – le categorie del diritto d’autore non sono in linea di principio applicabili ad esso, e quindi Internet dovrebbe essere percepita come un spazio di informazione pubblica in cui si livella il valore di uno specifico testo di copyright. Queste idee hanno trovato l’incarnazione più completa dei principi di etica degli hacker. Si badi bene, s’intende il termine “hacker” nel significato originale e positivo: una persona che utilizza le proprie competenze informatiche per esplorare i dettagli dei sistemi programmabili e sperimenta come estenderne l’utilizzo a tutti. L’uso spregiativo che alcuni adottano non pertiene appunto alla moralità in toto del termine.

In accordo con questo punto di vista, si propone di limitare o addirittura rimuovere alcune norme dai fondamenti concettuali del diritto d’autore, ad esempio, per autorizzare l’uso corretto di opere originali e, in definitiva, abbandonare del tutto l’idea di proprietà intellettuale.

È chiaro che le origini di questo approccio dovrebbero essere ricercate nelle idee della libertà in rete, basato sul principio di l’informazione vuole essere slegata da schemi legali e/o autorizzativi. Di fatto, anche quegli autori che sostengono l’abolizione dell’istituto della proprietà intellettuale non sono pronti ad abbandonare completamente i diritti sulle loro opere e cancellare i loro nomi dai titoli e, specie, da entrate ed onorari. Le origini di tale approccio vanno ricercate all’interno della rete e questo sistema di opinioni sembra legittimo in entrambi i versi.

È evidente, quindi, che il compito primario nel formulare la moderna legislazione sull’informazione è quello di mantenere un equilibrio tra gli interessi dei produttori di software e le risorse informative da un lato, e gli interessi dei loro consumatori dall’altro. In caso contrario, lo sviluppo di nuove tecnologie di comunicazione contribuirà all’approfondimento della disuguaglianza informativa nella società moderna, alla divisione ulteriore della società fra chi è molto informato e chi meno.

Un ulteriore diritto, quello alla privacy è uno dei più fondamentali: esso riflette il naturale bisogno umano di riservatezza e autonomia, di proteggere il proprio “spazio personale” dall’intrusione esterna, nella capacità di decidere senza essere spiato e restare se stesso.

Non è un caso che in tutti i documenti internazionali che dichiarano i diritti e le libertà dell’uomo, così come in tutti i codici etici legati alla sfera dell’informazione, la privacy sia proclamata come un valore morale fondamentale, che costituisce il fondamento della libertà e della sicurezza umana, e quindi richiede rispetto, rispetto e protezione. È interessante notare che, a differenza di altri diritti umani formulati nel sec. XVIII, il diritto all’inviolabilità della vita privata ha ricevuto legislazione e tutela solo di recente, a metà del sec. XX. Questo si spiega proprio con lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, sotto l’influenza delle quali l’intrusione nella sfera privata del singolo è diventato molto più facile.

In particolare, nonostante il dichiarato anonimato della navigazione in Internet, esistono tecnologie che consentono di raccogliere informazioni sul comportamento degli utenti sul web. La raccolta di tali informazioni non può essere considerata riprovevole, ma solo se ricorrono determinate condizioni, piuttosto rigorose. Deve essere ottenuta in buona fede, con la conoscenza e il consenso dell’interessato (il soggetto cui si riferiscono le informazioni); raccolta per scopi ben definiti che non siano in contrasto con la legge e utilizzati in futuro in stretta conformità con le finalità dichiarate; protetta da accessi non autorizzati; non essere ridondante; non associata a dati di identificazione personale dell’utente senza la sua autorizzazione.

Però nella pratica, queste regole non sono sempre osservate, il che richiede la ricerca di soluzioni adeguate, consentendo di proteggere efficacemente la privacy degli utenti Internet da interferenze non autorizzate da parte di agenzie sia governative che commerciali.

Un ruolo importante nel garantire la riservatezza degli utenti di Internet è svolto dalla creazione di alcuni codici etici nel campo della protezione, la cosiddetta privacy policy. L’informativa sulla privacy è una dichiarazione ufficiale sui termini di utilizzo dei dati personali richiesti dai clienti della risorsa Internet. Di norma, è pubblicato sulla home page del sito e include una descrizione dettagliata dello scopo della raccolta di informazioni e pratiche: ne ho parlato – con molti dubbi – su uno dei miei precedenti articoli.

La causa dei miei dubbi è molto semplice: chi è interessato a spiare terzi paga di più il creatore dell’apposito software, rispetto all’organizzazione internazionale, governativa, o alla singola agenzia privata che prevede quote molto basse di onorario al creatore di software che dovrebbe proteggere la riservatezza dei cittadini. E chi è pagato meglio è ovvio abbia maggiori stimoli a elaborare spy-software, rispetto al tecnico a posto fisso e stipendio determinato. È la logica immorale del capitalismo.

Per cui i termini della sua diffusione dei termini della privacy, contengono altresì garanzie in materia di protezione dei dati personali, che l’amministrazione del sito si assume. In Occidente, la presenza e l’adesione di aziende che provvedono alla privacy policy è parte integrante dell’etica dell’e-business, ed è chiaramente testimoniata da enti pubblici internazionali grazie ai quali si creano certificazioni delle risorse Internet, che informano gli utenti sul grado di protezione dei propri dati personali quando lavorano con i siti web. Tali esempi dimostrano chiaramente che l’autoregolamentazione è estremamente efficace su Internet – finché dura, per le predette ragioni – quindi si spera che gli internauti si rendano conto dell’importanza della privacy come valore sociale e morale.



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