Non esistono accordi internazionali sullo spionaggio, che cosa significa? La lezione del professor Andrea de Guttry, ordinario di Diritto internazionale della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, nell’ambito del Master in intelligence dell’Università della Calabria, diretto da Mario Caligiuri
Primo: non ci sono accordi internazionali per quanto attiene lo spionaggio. Secondo: la ragione della mancanza di questi accordi è che gli Stati negano ufficialmente di svolgere attività di spionaggio ma è noto che tutti lo attuino. Terzo: l’’attività di spionaggio in tempo di guerra è codificata in molto preciso e prevede infatti qual è lo stato giuridico della spia, prima, durante e dopo il conflitto. Quarto: lo spionaggio in tempo di pace va regolato attraverso norme che vanno individuate attraverso quanto previsto in diverse aree, perché non esiste una disciplina organica. Quinto: esistono all’interno di tutti gli Stati norme che valgono ovviamente solo nell’ambito territoriale della sovranità degli Stati che disciplinano l’attività dello spionaggio. Sono i punti centrali della lezione tenuta da Andrea de Guttry, professore ordinario di Diritto internazionale della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, nell’ambito del Master in intelligence dell’Università della Calabria, diretto da Mario Caligiuri.
“Siamo tutti spiati ma tutti spiamo allo stesso tempo”. Così, citando il testo di Ashley Deeks You spy, I spy, we all spy, ha esordito de Guttry. Tale incremento dell’attività di spionaggio lo si deve attribuire soprattutto alle tecnologie che si stanno rendendo disponibili in questi anni. Esse però non sono neutre, poiché determinano danni e costi in termini economici, politici, sociali e di sicurezza. Vanno perciò disciplinate, rendendo necessario comprendere le regole internazionali che possano armonizzare o limitare il fenomeno dello spionaggio internazionale. Il professore ha così in primo luogo chiarito che, pur non essendoci una definizione vincolante di spionaggio a livello internazionale, potremmo utilizzare quella dell’MI6 britannico: processo di ottenimento di informazioni illegali relative a segreti politici, economici, industriali o militari. La raccolta di tali informazioni può avvenire tramite fonti umane e mezzi tecnici.
Le fonti umane possono essere agenti de jure o agenti de facto ai quali si potrebbero aggiungere, in violazione dei propri obblighi, anche agenti diplomatici regolarmente accreditati sullo Stato. L’agente de jure è un funzionario dello Stato, mentre l’agente de facto viene reclutato e può essere sia interno allo Stato, dove vengono svolte quelle attività di spionaggio, sia esterno. Nonostante tutti gli Stati concordino che inviare spie non sia considerato sbagliato dal punto di vista morale e politico, questi agenti non hanno uno status riconosciuto dal diritto internazionale. Unica eccezione è prevista per l’agente diplomatico che gode di uno status di immunità assoluta e inviolabile e se scoperto mentre svolge attività di spionaggio può essere dichiarato “persona non grata” e avere 48 ore di tempo per abbandonare il Paese.
De Guttry ha poi spiegato che lo spionaggio in tempo di guerra è meglio regolamentato di quello in tempo di pace. In tempo di guerra, infatti, si applica la disciplina del Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra, che stabilisce che se una spia agente delle forze armate di una parte in conflitto viene catturata dalla parte avversaria, sarà trattato come spia e non ha diritto allo status di prigioniero di guerra. Invece se la spia viene catturata dopo aver concluso la propria attività di spionaggio sarà trattata come prigioniero di guerra, senza responsabilità per le azioni di spionaggio. In tempo di pace, gli Stati non possono interferire nelle sovranità degli altri Stati. Sono operanti, infatti, convenzioni che prevedono l’esercizio della sovranità in ambito territoriale, marino e spaziale.
Un problema delicato è se e in che modo sia possibile svolgere attività di spionaggio nello spazio atmosferico. Sono considerate illecite le attività quando usurpano funzioni che spettano esclusivamente allo Stato. Se si tratta invece solo di una raccolta di informazioni, non tradotta in altre attività e senza nessuna conseguenza, questa è allora da ritenersi lecita. In generale, pur mancando una chiara legislazione internazionale che possa regolamentare lo spionaggio in tempo di guerra e di pace, ci si può riferire tuttavia ad alcune fonti. Tra esse sono annoverati i trattati, le norme di diritto internazionale consuetudinario, i principi generali di diritto, le norme cogenti. I trattati, ha ricordato il professore, vanno interpretati da quello che emerge chiaramente o oggettivamente dal testo e secondo le regole di interpretazione codificate nella Convenzione di Vienna, non secondo le regole di interpretazione del diritto interno. Fra le varie fattispecie di fonti, rientra il manuale di Tallin, che pur non essendo un trattato vero e proprio ma un documento di soft law, identifica qualche limite all’attività di spionaggio nell’ambito di un conflitto armato, soprattutto per quanto riguarda le attività cibernetiche.
Il professore poi ha ricordato una fattispecie tipicamente italiana: una sentenza della Corte di Cassazione che si è differenziata da quella di altri Stati nel caso della vicenda Abu Omar, precisando che gli agenti degli altri Stati non godono di una particolare tutela giuridica, a meno che non sia esplicitamente prevista. Noi abbiamo invece invocato la norma opposta nel caso dei due marò in India. Il professore ha poi ricordato che per identificare le attività di spionaggio occorrono tre presupposti: dimostrare che gli altri Stati abbiano violato la sovranità, verificare se è attribuibile la responsabilità dello Stato e infine fare comunque precedere all’eventuale contenzioso una trattativa pacifica per cercare di raggiungere un accordo.
A dimostrazione di come, comunque, la legislazione interna di tutti gli Stati del mondo criminalizzi lo spionaggio e il furto di informazioni riservate, de Guttry ha illustrato il caso di Walter Biot, l’ufficiale della Marina accusato di aver passato documenti a un agente diplomatico russo in cambio di 5.000 euro, con un’esercitazione di simulazione e role-playing tra gli studenti del Master.