Nulla come il comportamento di Djoković in Australia (e ancora di più quello del suo entourage, genitori in testa) cosi come il suo trionfale ritorno in madrepatria raccontano di una classica fenomenologia balcanica e più nello specifico serba, del celebrare la sconfitta come momento di rivendicazione identitaria nazionale
Tale è il clamore che – eccezionalmente – eccoci ad integrare il nostro commento sull’affaire Novak Djovović, precedente alla sentenza che ne ha decretato l’espulsione definitiva dall’Australia.
Di nuovo, il focus è su aspetti collaterali politici e geo-politici della vicenda; trascurati – o peggio – grossolanamente forzati a vantaggio delle critiche (predominanti in Occidente) o dei plausi (consistenti ad Oriente) alla avversità del tennista ai vaccini. Difficile da accettare per i milioni di persone immunizzatesi per convinzione, senso civico o semplicemente (va detto) per un imposizione di fatto.
È normale che, nel terzo inverno pandemico, il vaccino condizioni il mainstream e che gli schemi di dialogo sul tema siano saltati lasciando spazio al muro contro muro. Se il Covid è una guerra (metafora oramai ritrita), la Storia ci dice che è proprio sul suo finire che gli scontri si fanno più duri.
Il problema è che molti dei commenti su Djoković si sono spinti troppo in là con evidenti forzature anche per i fautori del fine (diffondere i vaccini per salvare vite) che giustifica i mezzi (isolare il testimonial no-vax).
Sottolinearle non vuol giustificare il comportamento del campione serbo ma nemmeno asseverare l’epilogo machbettiano che a caldo in troppi gli hanno decretato. Dando quasi l’impressione di augurarglielo.
Sul puro piano sportivo, la prima forzatura sta nell’illusione che l’unico perdente di questa triste storia sia Djoković. Come se per un Gran Slam, lo svolgersi senza il favorito numero uno e campione uscente, non significhi compromettere la credibilità del torneo, buttando un’ombra su chiunque se ne aggiudichi l’edizione 2022.
Tra i più colpiti per questa incresciosa situazione dove tutti hanno dato il peggio di sé, vi sono di certo gli stessi organizzatori dell’Australian Open che avevano fatto i salti mortali per invitare Djoković sapendo benissimo che non era vaccinato né intendeva farlo.
L’espulsione del tennista è espressione plastica di un altro trend del Covid: l’irrilevanza, anche solo sulla carta, dello sbandierato principio di autonomia dello sport dalla politica. Confermato dal Governo Francese, che per bocca del suo Ministro dell’Immigrazione Roxana Maracineanu prontamente smentisce gli organizzatori del Roland Garros, affrettatisi a rassicurare l’apertura ai non vaccinati del Gran Slam parigino.
E che ricorda l’intervento nel 2021 di Mario Draghi, Boris Johnson e Emmanuel Macron a difesa dei propri campionati nazionali di calcio, contro il piano di Andrea Agnelli di istituire una Super Lega di Calcio europea, per garantire una sostenibilità dei conti dei club storici più blasonati.
Per quanto riguarda la carriera individuale di Djoković, suonano eccessivi certi peana che ne decretano niente meno che la caduta in disgrazia sportiva e umana alla stregua di un Diego Armando Maradona, in difficoltà finanziaria e relegato ai margini del suo stesso mondo di riferimento.
Il tennista serbo ha un’età alla quale campioni del passato nello stesso sport si erano già ritirati vincendo molto di meno e senza che nessuno li considerasse per questo dei falliti. Non si capisce – anche se appendesse la racchetta al chiodo adesso – su cosa si basi il pronostico dell’editoriale di Sandro Veronesi sul Corriere della Sera che egli possa addirittura “perdere tutto” (!?).
Se c’è chi ancora (giustamente) celebra Adriano Panatta per avere vinto un Gran Slam nel lontano 1976, è probabile che solo per il fatto essersene aggiudicati ben 20 Djoković non verrà dimenticato presto.
Un’altra conclusione dello stesso editoriale (secondo cui Djoković avrebbe addirittura “tradito lo spirito balcanico”) fa da spunto per una considerazione antropologica che chi scrive, date le sue note origini bosniache, sente di dovere riaffermare qui.
A onor del vero nel suo bel articolo (insolitamente documentato per un autore italiano) Veronesi si riferisce al discostarsi di Djoković da una tradizione di sportivi balcanici perdenti di classe, interessati più all’estetica che alla vittoria.
È una visione romantica ma superata.
Dopo il crollo della Jugoslavia, la generazione di atleti professionisti che sono seguiti – soprattutto negli sport di squadra – è diventata insolitamente spietata tecnicamente e tatticamente.
Result oriented e di successo.
Nella sua preparazione atletica e mentale Djoković si inserisce in una scia che ha sfornato schiere di campioni balcanici che per citare solo quelli del basket va per i serbi da Vlade Divac al fenomeno Nikola Jokić; e per i croati dal leggendario Drazen Petrović a Toni Kukoć. Dominatori dell’Nba, luogo tutt’altro che incline ai fronzoli fine a se stessi che Veronesi attribuisce allo sportsman balcanico.
L’accusa di “tradimento spirituale” regge ancora meno se riferita al contesto politico-culturale serbo tour court.
Come accade per molti tennisti trattati come degli apolidi di lusso, internazionali come i loro sponsor, si dimentica spesso l’importanza del legame con il loro Paese di origine, come se la cosa non li riguardasse.
Il forte rapporto di Djokovic con la Serbia ne sottolinea l’adesione ad un patriottismo che nei Balcani, proprio a partire dagli ultimi conflitti etnici, precede sempre il dato sportivo e lo sovrasta finanche nelle scelte più banali, intestandosele. Come dimostra la reazione contro l’Australia, partita quasi di default, del presidente della Serbia Aleksandar Vucić, molto a suo agio nello sfruttare l’occasione per riproporre il mantra della cultura storica del popolo perseguitato che trae forza dai suoi insuccessi.
Nulla come il comportamento di Djoković in Australia (e ancora di più quello del suo entourage, genitori in testa) cosi come il suo trionfale ritorno in madrepatria raccontano di una classica fenomenologia balcanica e più nello specifico serba, del celebrare la sconfitta come momento di rivendicazione identitaria nazionale.
Del “tanto peggio, tanto meglio – saranno i (miei) posteri a giudicarmi”. A Belgrado, non a Sydney.