Da Flash Gordon in avanti, la cometa in rotta di collisione verso la Terra è un tema ricorrente nella fantascienza, così come la salvezza in extremis. Più che al filone dei disastri, il film Don’t look up! attinge alla tradizione della satira politica per denunciare l’insensibilità ai temi ambientali. Tanti riferimenti aperti o cifrati, forse troppi per andare fino in fondo. Attenzione: contiene spoiler!
Una cometa di undici chilometri dirige verso la Terra: se non si riuscirà a fermarla, l’umanità potrebbe estinguersi. Don’t look up! del 2021? No, Deep impact del 1998 (o, con alcune differenze, Armageddon, dello stesso anno). Se il tema è tutt’altro che nuovo, è inedita la conclusione. Mentre i due film catastrofisti salvavano il pianeta in extremis, quello di Netflix non lascia speranze. La cometa colpisce la Terra, uccidendo Randall Mindy (Leonardo Di Caprio), Kate Diblasky (Jennifer Lawrence) e il resto della popolazione, e i pochi privilegiati che dopo 22.740 anni raggiungono un altro pianeta vengono divorati dalla fauna locale. Più che violare le regole del disaster movie, il regista Adam McKay segue quelle della satira, attingendovi a piene mani per denunciare metaforicamente l’insensibilità della politica ai temi ambientali.
TRA SCIENZA E PROPAGANDA
Senza scomodare Flash Gordon (1934), con l’eroe intento a deviare il pianeta Mongo in rotta di collisione verso la Terra, l’impatto di un corpo celeste contro il nostro pianeta è un’idea che si trova dappertutto, dall’estinzione dei dinosauri all’incidente di Tunguska del 1908. La Nasa dice che «nessun asteroide più grande di 140 metri ha una possibilità significativa di scontrarsi con la Terra nei prossimi cento anni», ma aggiunge che quelli sinora scoperti sono solo il 40% del totale. È per questo che l’agenzia ha avviato il Double asteroid redirection test (Dart), che vuole deviare un asteroide facendovi scontrare contro un satellite artificiale.
Nel film, la presidente Janie Orlean (Meryl Streep) pensa soprattutto alle elezioni di midterm, costringendo gli scienziati alla battaglia mediatica per sensibilizzare l’opinione pubblica. Mossa inutile: vecchi e nuovi media pensano solo agli ascolti, ingabbiando la terrificante notizia in trasmissioni-contenitore di pettegolezzi e buon umore. Quando Orlean decide di affrontare la cometa, il carismatico imprenditore Peter Isherwell (Mark Rylance) le fa balenare la possibilità di estrarne materiali preziosi. Attorno a questa ingordigia si consumerà la tragedia.
IMMAGINI CHE PARLANO DA SOLE
Benché McKay e lo sceneggiatore David Sirota, già nello staff di Bernie Sanders, non ne indichino mai il partito, la collocazione politica della Orlean è suggerita dai ritratti di Richard Nixon e Andrew Jackson appesi nell’Ufficio Ovale. Come dire l’insincerità da una parte (“comprereste un’auto usata da quest’uomo”, secondo l’espressione applicata a Nixon per la prima volta nel 1960) e il populismo dall’altra (non a caso, “Old Hickory” è il modello di riferimento di Donald Trump). Per la storia Usa sono riferimenti che trascendono la scenografia.
Il meccanismo è utilizzato anche altrove, per integrare in modo silenzioso la narrazione. Sul muso dello shuttle rimesso in servizio per fermare la cometa si legge “Savior” (Salvatore), con un doppio riferimento all’aspettativa quasi religiosa della salvezza e all’attore che impersona il colonnello Benedict Drask richiamato per pilotarlo: Ron Perlman, che ne Il nome della rosa impersonava appunto Salvatore. Più avanti, Drask tenterà di sparare alla cometa, come Sarah Palin prometteva di fare con il suo fucile contro gli invasori russi dell’Alaska. E ancora, l’esplosione che segue l’impatto della cometa proietta nello spazio il toro di bronzo di Wall Street: una condanna visiva della speculazione che ha portato l’umanità alla distruzione.
Talvolta le immagini citano altri film. Quando l’astronomo Mindy perde la pazienza in Tv, ricorrendo al turpiloquio per far comprendere il disastro imminente, è difficile non riandare alla rabbia di Howard Beale (Peter Finch) in Network (Quinto potere, 1976). Il corpetto rosso indossato dall’affascinante conduttrice Brie Evantee (Cate Blanchett) per una serata di gala con Mindy ricorda non a caso quello di Wonder Woman, sottolineando la sua differenza rispetto alla normalissima moglie dello scienziato. Non tutte le allusioni sono così evidenti. Se uno storico dell’arte come Tommaso Casini può riconoscere Hyeronimus Bosch nella scena finale dell’uccisione dei privilegiati (con annesso rimando al concetto di peccato e agli insegnamenti morali – in questo caso, l’immoralità della fuga dei ricchi e famosi), è piuttosto difficile che altrettanto possa fare l’americano medio.
CLINTON, TRUMP O FLASH GORDON?
Poiché Don’t look up! è satira, il suo archetipo non è Flash Gordon. La sfiducia per i meccanismi democratici è un genere a sé stante, con fortune legate all’andamento della politica, con i suoi protagonisti senza scrupoli e dalla visione limitata. Negli anni Novanta comparvero in rapida successione diversi film sull’ipocrisia del potere e la manipolazione dell’informazione. In Dave (1993) il presidente vittima di ictus era sostituito da una controfigura, che si ribellava al capo di gabinetto e ribaltava le politiche in senso progressista. In The second civil war (La seconda guerra civile americana, 1997), una crisi di immigrazione faceva scendere in campo le milizie armate. In Wag the dog (Sesso e potere, 1997) per rialzare la traballante popolarità presidenziale la Casa Bianca inventava una guerra in Albania, con tanto di finte dirette Tv.
In questo senso, la relazione segreta che fa scattare nella Orlean la decisione di fermare la cometa come diversivo per la stampa rimanda al presidente fedifrago in Dave, così come lo slogan “Don’t look up!” inventato dai negatori del rischio-cometa è l’equivalente 2.0 delle false citazioni storiche inventate dagli spin doctor di Wag the dog. L’inconsistenza della Orlean di fronte alla cometa non è troppo diversa dall’atteggiamento imbelle del presidente James Dale (Jack Nicholson) davanti agli alieni verdi in Mars attacks (1996). La foto di Bill e Hillary Clinton che campeggia sulla scrivania di Orlean confonde ulteriormente le acque, perché sembra suggerire che una carriera nata con i democratici.
CANDIDATO ALL’OSCAR?
La stimolante ricchezza dei riferimenti non basta a rendere Don’t look up! un classico. L’eccessiva lunghezza, il tono incerto tra il comico e il grottesco, la mancanza di un’angoscia pressante diluiscono la forza di una recitazione eccellente. La quantità di temi nuoce alla possibilità di approfondirli: dal ruolo di Russia e Cina a quello del capitalismo visionario, dal funzionamento dei media all’intelligenza artificiale, ci si ferma spesso alla mera elencazione delle sfide contemporanee. La scelta di attribuire responsabilità a un clima generale anziché a una parte precisa rende il film più accettabile, ma stempera le denunce in battute. La satira non è né di destra né di sinistra: semplicemente, attinge ai comportamenti più riconoscibili dei politici oggi in evidenza, confermando che l’antipolitica non è nuova e non ha colore. Persino il cast stellare sembra sottostare alla logica del “potevamo stupirvi con effetti speciali”. Insomma, se siamo lontani dal nichilismo de Il dottor Stranamore, il film è molto godibile ed è facile prevedere che il successo di pubblico si tradurrà in premi importanti (persino qualche Oscar pesante?), suggellando il ruolo delle piattaforme di streaming nella produzione cinematografica.